Mi hanno paracadutato lì perchè nessuno voleva andarci
Stefano Esposito, senatore della Repubblica, Pd, pur essendo nato a Moncalieri (Torino) nel 1969, è chiaramente figlio di quell’emigrazione che fu protagonista del Boom economico. E forse, avendo nei cromosomi la voglia di riscatto di tanti, sta in politica non concedendo nulla politicamente corretto. Dice pane al pane, vino al vino, e non si rifugia dietro gli schemi, le iperboli, i paludamenti tipici della politica politicata. Per questo è spesso bersaglio di clamorose campagne d’odio, sempre per la verità molto cercate: da quelle dei NoTav, contro i quali ha condotto una battaglia senza esclusioni di colpi (dialettici i suoi, in testa quelli che gli avevano promesso), a quelle di una serie di giornaliste à la page che l’hanno perseguitato per un tweet considerato sessista, in uno dialogo, peraltro scherzoso, sul calcio. E anche nelle sua esperienza lampo di assessore ai trasporti a Roma, chiusasi di recente con la caduta di Ignazio Marino, s’è fatto mettere sulla graticola per aver canticchiato a La Zanzara, il ritornello antiromanista di quando, ragazzetto, faceva l’ultra juventino. Domanda. Senatore, teniamo da parte le accuse che, via via, le hanno fatto su cose che con la politica non c’entrano.
Risposta.
Ah, bravo. Sono le storie di quel gossip giornalistico, specialmente romano, che ama tanto occuparsi delle cose inutili.
D. Facciamo un bilancio, invece, di questa esperienza romana, che non è solo Campidoglio: prima c’è stato il commissariamento del Pd di Ostia (Rm), che forse dimenticano o misconoscono. Dove c’erano inquinamenti pesanti della malavita.
 R.
A Ostia e sono arrivato il 1 di marzo, chiamato da Matteo Orftni, in quanto commissario del Pd di Roma. Lì, la cosa di più immediata percezione era di una situazione in cui nulla era come appariva, sia dal punto di vista del contesto, sia di quello sociale e politico. Anche all’interno del Pd.
D. E che cos’è successo?
R.
Per 20 giorni mi hanno un po’ portato a spasso, diciamo.
D. Vale a dire?
R.
Mah, mi hanno raccontato quello che volevano. Poi mi sono stancato e ho «dimissionato» il presidente del X municipio, Andrea Tassone, del mio partito.
 D. Cioè l’ha indotto a dimettersi?
R.
Esattamente, gli ho spiegato che era il caso che lo facesse. Avevo annusato la situazione, non perché sia Sherlock Holmes, ma perché aveva capito che non me la raccontava giusta. Un’intuizione corretta, visto che poi, a giugno, è stato arrestato nel secondo troncone di Mafia capitale e il municipio è stato sciolto.
 D. Un sesto senso…
R.
Lui finì ai domiciliari. Anche se rimango garantista.
D. Il processo è iniziato ieri, vedremo come va a finire. Cos’altro la colpì a Ostia?
R.
Che non eravamo di fronte solo a vicende di mala gestione politica: la città era pesantemente infestata dalla criminalità organizzata. Feci, dopo una settimana, nomi noti a tutti, come quelli delle famiglie Spada, Fasciani, Triassi.
D. Alcuni non la presero bene…
R.
Un esponente della famiglia Spada, con la presunzione e arroganza degna delle miglior clan, mi attaccò con insulti e minacce su Facebook. Avevamo riaperto un libro chiuso da troppo tempo, cioè della presenza mafiosa sul litorale. Vorrei ricordare una cosa.
D. Prego.
R.
Che il municipio di Ostia non è stato commissariato per Mafia capitale e per la vicenda Tassone, ma per la presenza certificata e invasiva nel tessuto politico e sociale, che definisco mafiose non solo io. Ostia è uno dei municipi più grandi sciolti per mafia. Il prefetto Franco Gabrielli ha fatto un atto rilevantissimo.
D. Per una volta un partito, il suo, era arrivato prima della magistratura.
R.
Sì e dovrebbe accadere più spesso, anche se non è ov-viamente una competizione e la magistratura deve fare il suo corso.
D. Domanda di rito: quando l’hanno minacciata ha avuto paura? Insomma, i malavitosi ostiensi parrebbero più inquietanti dei Black bloc arrabbiati della Val di Susa.
R.
Nessunissima. Anzi, li ho definiti «guappi di cartone», abituati a comandare a casa loro, ne ho fatto nomi e cognomi, mi sono tolto qualche soddisfazione.
D. Ora che non è più assessore, resta commissario: va ancora là al partito di Ostia?
R.
Certo, faccio riunioni coi militanti: la vita del Pd continua.
D. Come è stato all’inizio?
R.
Un po’ complicato. All’inizio ho incontrato alcune difficoltà, proprio su Tassone, sulla cui vicenda non potevo e non volevo dire tutto agli iscritti.
D. Poi la consideravano un forestiero?
R.
Inevitabilmente, ma le cose si sono aggiustate, man mano che la legalità è stata ripristinata. Ho il solo cruccio: che la fine della giunta Marino non abbia permesso ciò che a Ostia sarebbe stato importante fare.
D. Ossia?
 R.
Revocare le concessioni balneari, come era in programma, abbattendo il muro che impedisce l’accesso al mare. È l’eredità della prossima giunta, perché il ruolo dei balneari a Ostia deve essere necessariamente rivisto.
D. Poi è arrivato il Campidoglio. Chi glielo ha fatto fare?
R.
Oh, senta, io sono un soldatino del Pci.
D. Ah, ha fatto in tempo a essere comunista?
R.
Certo, ero nella Federazione giovanile comunista italiana-Fgci e corsi a prendere la tessera del partito: di lì a poco svanì, diventando Pds.
 D. La svolta della Bolognina, di Achille Occhetto. E dunque, in quanto soldatino?
R.
Voglio dire che sono stato abituato a non tirarmi indietro quando i colonnelli e i generali ti comandano. E quando un generale, come Orfini, te lo chiede, non puoi tirarti indietro. Per lo meno, nella mia educazione politica, non esiste proprio.
D. Era un posto scomodo.
R.
I trasporti a Roma?! Poltrona con annessa ghigliottina. Hanno chiamato me, non perché fossi il genio dei trasporti, eh.
D. Beh, è in commissione Trasporti, se ne è sempre occupato. E poi Esposito ha la scorza dura.
R.
Sì, certo ma anche perché nessuno ci voleva andare in quella posizione.
D. Che situazione ha trovato?
R.
Era il 27 luglio, c’era stato il caos degli scioperi bianchi, dei blocchi a singhiozzo della metro, la gente furiosa. Ho cercato di fare un po’ d’ordine ma all’Atac ho trovato una situazione devastante, anche perché Marino aveva pensato bene, secondo una logica grillina, come primo atto dell’amministrazione, di ridurre gli emolumenti ai con-siglieri di amministrazione.
D. Non era giusto?
R.
Chi guida un’azienda di 12mila dipendenti, ripeto, 12mila, non può guadagnare 67mila euro lordi, quando i dirigenti avevano buste da 120mila fino a 250mila euro e, con la giunta di Gianni Alemanno, erano diventati più di cento.
D. Quindi cosa ha fatto?
R.
Ho ricapitalizzato l’azienda per 178 milioni, purtroppo coi soldi dei Romani ma, diversamente, Atac non sarebbe riuscita a pagare gli stipendi. E poi ho cercato di favorire una riorganizzazione, costatando però di trovarmi di fronte alla cassaforte del sistema politico romano.
D. Vale a dire?
R.
Un’azienda tentacolare, che è un’eccezionale macchina di consenso politico e, questo il mio sospetto, di corruzione. Prima di andarmene ho consegnato alla Procura di Roma e all’Autorità nazionale anti-corruzione-Anac molto materiale. AU’Anac stessa avevo scritto, segnalando che c’era molta opacità: per due mesi ho chiesto invano alla dirigenza di avere documentazione di appalti. Ma i dirigenti recalcitravano.
D. Che vuol dire cassaforte?
R.
Che negli ultimi anni sono stati dati, complessivamente, 2.253 milioni di lavori fra appalti e affidamenti diretti. È una cifra pazzesca, in rapporto alle condizioni in cui versa la metropolitana e il trasporto di superficie.
D. Chissà se Procura e Anac sbroglieranno questa matassa. Ma di chi è la colpa?
R.
È qualcosa che nasce non solo nei due anni di Marino, né nei cinque di Alemanno soltanto. Arriva da più lontano, ma mi collii che ouando ne scrissi a Raffaele Cantone, l’unico a prendere posizione, oltre a Orfini, fu Francesco Giro di Forza Italia. I moralizzatori del M5s evitarono di spendere una parola.
D. Non volevano forse fiancheggiare l’azione di un esponente Pd.
R.
Oppure c’è qualche riposizionamento interno all’Atac verso di loro che, le ripeto, è un’azienda di 12mila dipendenti, quindi una enorme macchina di consensi.
D. Ma lei, in questi mesi da assessore, è riuscito a capire quanti di questi 12mila sono davvero necessari?
R.
II tema non sono i 12mila, ma la loro ricollocazione in modo che tutti facciano le cose che servono davvero. In ogni caso i dirigenti sono scesi a 58.
D. Coi dirigenti, lo abbiamo detto prima, qualche problema l’ha avuto.
R.
Per forza, ero arrivato dichiarando che si doveva tagliare qualche testa e che era necessario arrivassero persone libere e capaci. Coi macchinisti della metro, poi, ho sviluppato un dialogo interessante, è ho responsabilità molto minori di quelli che la voxpopuli ha attribuito loro.
D. Rimorsi o rimpianti?
R.
La vera amarezza è, mi scusi l’espressione, vedere i cumuli di merda e non poterli spalare. Questa è un’incazzatura che mi rimane.
D. C’è un problema «Roma»? E le preciso che non le voglio tendere una trappola «zanzaresca» alla Giuseppe Cruciarli.
R.
Le responsabilità della cittadinanza è sempre minore rispetto a quella di una classe politica e amministrativa la quale, a Roma, ha costruito un sistema clientelare in cui anche i sindacati sono stati spesso coinvolti. Per questo ho chiesto anche io che le 800 pagine della relazione del prefetto Gabrielli sul Campidoglio fossero desecretate e non solo per conoscere i nomi dei 101 dirigenti di cui si parla.
D. Come si salva Roma? Lei ha detto che ci vorrà un politico ma tutta la sua esperienza direbbe il con-trario.
R.
Chiunque faccia il sindaco, deve capire che ormai il Comune di Roma è una macchina che vive di vita propria, un Moloch, che resiste anche alla politica. È una pubblica amministrazione ostile ai cittadini i quali, per reazione, finiscono per non pagare, per non rispettare leggi e regolamenti, e la situazione si incancrenisce.
D. L’immagine del Moloch burocratico che resiste a tutto fa paura.
R.
Un sindaco grillino resisterebbe tre mesi, ma sarà dura per tutti.
D. Lei, per il Pd, chi vorrebbe?
R.
Un politico d’esperienza.
D. Beh con la società civile alla Marino, ha scritto qualcuno, abbiamo dato.
R.
Marino è arrivato perché il Pd ha ceduto alla preoccupazione di competere sul mercato elettorale del grillismo.
 D. E che si deve fare col grillismo?
R.
Il grillismo va sfidato, non assecondato. Loro, i cinque stelle, sono portatori di meccanismi impolitici, pensano che basti tagliare i costi della politica e che tutto vada a posto. E infatti vanno a sbattere. A Parma, un sindaco che fa appena l’ordinario. è stato quasi messo alla porta del M5s; a Livorno non brillano. Altro che l’hashtag #mettetemiallaprova, mi fanno ridere.
D. E dunque a Roma?
R.
Un politico professionista: se ho il mal di denti non vado da un odontoiatra appena specializzato vado da quello esperto. Ci vuole qualcuno libero di applicare le ricette che occorrono ma basterebbe, secondo me, la diligenza del buon padre di famiglia per migliorare di molto le cose.
D. Senta, le primarie le farebbe?
R.
No, l’ho detto in tempi non sospetti. Ora leggo ehe anche il mio vicesegretario Lorenzo Guerini dice che «forse si possono non fare» Ci sono situazioni in cui un partito si deve assumere la responsabilità di indicare la persona giusta. E il Pd, dimissionado Marino, ha dimostrato di rinunciare a un interesse politici» nell’interesse cittadino.
D. Lei è molto vicino a Orfìni ma il presidente del Pd, sulla vicenda romana, non ha sbagliato qualcosa?
 R.
Non riesco a vedere suoi errori, tranne uno.
D. Quale?
R.
Non avere imposto a Marino il cambio totale della struttura di staff che si era messo attorno. Quella era un pezzo del problema. Ne sono sempre più convinto: un leader si distingue dalle persone di cui si circonda e che devono essere persone che compensano i suoi limiti, non gente che gli dice quanto sia bravo e figo.
D. È un appunto che fanno a Matteo Renzi, lo sa vero?
R.
E sbagliano di grosso. E attento bene: io con Renzi ho fatto a testate sulla Tav.
D. Ricordo, quando nelle primarie 2012, l’attuale premier sembrava disposto a non farla più. E poi lei quell’anno stava con Pier Luigi Bersani…
R.
E l’anno dopo sono stato con la mozione di Gianni Cuperlo, però il segretario ha e avrà sempre la mia lealtà. Non fedeltà, attento bene, perché voglio essere libero di criticarlo.
D. Si diceva dello staff però: dunque Renzi non si circonda si «yes men» o «yes women»?.
R.
No, direi che ascolta le opinioni, anche di quelli che non gli dicono «sei un figo». Ed è un pezzo della sua forza: ascolta le idee che non sono sue e spesso le segue. Questo gli va riconosciuto.
D. Lei è un esponente della sinistra del Pd ma che non fa a sportellate col premier. Né se ne va come nan fatto altri, ultimo Alfredo D’Attorre.
R.
Quando uno perde, non porta via il pallone. Si resta, si coopera, si portano le idee, il che non significa, le ripeto, non criticare. Però su D’Attorre mi faccia dire una cosa.
D. Prego.
R.
Che è stato onesto intellettualmente, dicendo «non potevo continuare a votare contro il governo». E se ne è andato. Forse c’ha messo solo un po’ troppo, ma è stato onesto.
D. Che vuol fare Esposito d’ora in poi?
R.
L’ho già detto, nel 2018 lascio: due legislature sono abbastanza.
D. Ah però. E che vuol fare?
R.
Vorrei lavorare nel privato.
D. Anche lei come Lapo Pistelli?
R.
Non ho la più pallida idea di dove andrò. Prima tornerò al mio lavoro, alla Prefettura di Torino, per qualche mese, e poi comincerò a muovermi. Certamente nessuna azienda nell’indotto della politica: cambio per davvero. Ea bene dopo tanti anni.
D. Come era cominciata?
R.
A liceo, ero capo degli studenti medi di Torino, anni 1988-89-90. La nostra federazione era la più grande d’Italia nel partito.
D. Chi ricorda di quel Pei?
R.
Il mio mito era Ugo Pecchioli: ho fatto sei-sette incontri pubblici con lui, personaggio straordinario e non si poteva stare nelle sua corrente perché lui non ne aveva.
D. Era il ministro degli Interni del Pei.
R.
Un uomo di una disponibilità commovente.

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