Negli anni delle sue lotte con la pagaia stretta nei pugni, Josefa Idem ha conosciuto da vicino certe storie, certe facce, certe voci.
Lei, Idem, nata nella Germania Ovest, aveva come vicino di casa, oltre la Cortina di ferro, il più complesso sistema doping della storia.
«Le racconto un episodio. Una volta ero in ascensore, erano gli anni del doping trionfante nei paesi d`influenza sovietica. Accanto a me alcune donne, colleghe. A un certo punto ascolto, lì, una voce d`uomo, profonda, roca. Penso: ma com`è possibile?»
Anche allora, come adesso in Russia, connivenze tra Stato e istituzioni sportive rendevano inutile, impossibile la lotta al doping.
 «Era un sistema criminale che giocava con la pelle degli atleti. In nome di cosa poi? Del profitto, forse. Era un sistema altamente specializzato in cui tutto era finalizzato al risultato».
Trent`anni sembrano non essere trascorsi, o sembrano trascorsi inutilmente.
 «La lotta tra controllori e controllati deve essere alla pari. Basta inserire un granello di sabbia nell`ingranaggio ed è la fine. Gareggiare contro dopati è un`esperienza avvilente, ma credo sia avvilente anche gareggiare da dopati, vincere da dopati, mettere la medaglia al collo sapendo di mentire».
Si può affermare che in alcuni paesi i freni inibitori del doping siano più allentati che in altri?
«In certe culture sportive, in concomitanza so- prattutto di grandi eventi, l`etica viene travolta dalla necessità. Dobbiamo essere orgogliosi di appartenere a una realtà di ben altro spessore, in cui una colpa è una colpa e l`inganno viene sempre a galla. È l`unico modo che ha lo sport non solo di sopravvivere, ma anche di autorappresentarsi ancora come un`idea positiva».

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