Nel 1921 James Bryce nella sua opera classica Modern Democracies, affermava: «I partiti sono inevitabili. Nessuno ha dimostrato come il governo rappresentativo potrebbe funzionare senza di loro». Essi rappresentano un principio ordinatore e semplificatore, «creano l’ordine dal caos di una moltitudine di elettori», perciò sono indispensabili per il funzionamento della democrazia.
 Ad averlo ben compreso erano stati anche i padri costituenti. L’articolo 49 della nostra Carta indica nei partiti lo strumento di cui i cittadini si servono per «determinare la politica nazionale», e aggiunge che a questa «determinazione» si deve arrivare con «metodo democratico», senza però meglio specificarne le caratteristiche.

La discussione nella Costituente
Fu un tema di grande discussione nei lavori dell’assemblea Costituente. Costantino Mortati, nella seduta del 22 maggio 1947, propose, con il collega Ruggiero, un emendamento, poi respinto, che diceva: «Tutti i cittadini hanno diritto di riunirsi liberamente in partiti che si uniformino al metodo democratico nell’organizzazione interna e nell’azione diretta alla determinazione della politica nazionale».
Si preferì però mantenere la formulazione generica, nell’idea che, dopo il fascismo, occorreva soprattutto tutelare i partiti da potenziali ingerenze esterne che ne limitassero l’autonomia.
Fino a quando sono stati delle grandi organizzazioni di massa, i partiti erano naturalmente votati a dotarsi di un principio democratico interno per rappresentare e includere le diverse correnti culturali e i differenti bacini sociali che ne facevano parte.
Il tema della democrazia interna si è manifestato con l’avvento della Seconda Repubblica e la nascita dei partiti personali, senza però essere avvertito dall’opinione pubblica come un problema: se gli italiani non votavano più per un partito ma per il leader, che senso aveva interrogarsi sull’organizzazione interna di forze che senza il “capo” non sarebbero nate e che trovavano nella figura del “capo” la propria ragione sociale?
Tutto questo ha ulteriormente indebolito le organizzazioni politiche, già duramente minate dalla crisi di credibilità successiva a Tangentopoli. Una regressione che ha riguardato anche le forze che erano l’evoluzione dei partiti della Prima Repubblica; e chi invece, come il Partito Democratico, si è opposto alla deriva del partito personale, ha dovuto escogitare incentivi come le primarie per salvaguardare la partecipazione e l’idea di continuare a essere una forza collettiva.

L’antipolitica e la democrazia diretta
L’ultimo decennio, poi, ha rappresentato un vero e proprio salto di qualità. L’antipolitica ha abbandonato anche la scorciatoia della leadership carismatica attorniata in ogni caso da una struttura verticistica e leggera, per abbracciare l’idea del superamento della democrazia rappresentativa, da sostituire con non meglio specificate forme di democrazia diretta.
 Adesso che però la marea anti-partitica si è ritirata e che tutti hanno preso atto che un’alternativa non esiste, bisogna occuparsi della loro salute, perché se i partiti stanno male sta male soprattutto la democrazia.
 Un tema, questo, che interroga e sollecita soprattutto noi del Pd. Come ultimo vero partito, abbiamo in qualche modo il dovere di farcene carico.
 Spingendo i partiti ad aprirsi alla partecipazione, da un lato con una riscrittura dell’articolo 49 che specifichi in maniera puntuale gli elementi che concorrono a stabilire il rispetto del metodo democratico; e dall’altro con una serie di incentivi che portino i partiti a elaborare forme partecipative al passo coi tempi, per essere luoghi dell’elaborazione collettiva.

Il finanziamento, come in Germania
 È un po’ quello che accade in Germania, dove per spingere i partiti ad assumere la postura di organizzazioni civiche si usa l’incentivo del finanziamento pubblico. Più un partito è radicato nella società, tra (contributi degli) iscritti e voti ottenuti, più alta è la quota finanziamento pubblico.
 Allo stesso modo, lo Stato sostiene le fondazioni vicine ai partiti che in Germania sono un elemento qualificante della vita politica, in quanto centri aperti non solo agli iscritti e impegnati nella formazione politico-sociale e nella cooperazione internazionale, con un ruolo determinante nell’elaborazione delle policy e nel coinvolgimento della società tedesca nelle grandi riflessioni di sistema.
Naturalmente l’incentivo del finanziamento pubblico è solo uno dei tanti possibili per aiutare i partiti a ritrovare credibilità e a essere luoghi vivi dell’impegno e della partecipazione.
Quel che conta è che si cominci ad affrontare un tema che non può più essere rimandato. Ovviamente nessuno crede che torneremo alla stagione delle grandi forze politiche di massa del Novecento. E tuttavia se non vogliamo delegare la democrazia ai comitati elettorali o d’affari, dobbiamo allora collocarli in un processo di riforma e innovazione. Ne va della qualità della nostra democrazia.


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