Il ritorno di Di Pietro, i gazebo di Grillo, la passività logorroica e insostenibile del mezzo televisivo
Come passa il tempo. Come non passa mai. Antonio Di Pietro è stato visto aggirarsi domenica scorsa tra gli stand della festa del movimento Cinque stelle al Circo Massimo a Roma. Interesse e curiosità da parte di molti, anche se si è sentito qualcuno bisbigliare: ‘Hai visto com`è invecchiato Gerry Scotti? Ma no, quello è il sosia di Di Pietro’. In evidente sovrappeso e con una struttura fisica e, se posso dire, morale ormai tendente al badiale, l`ex leader dell`Italia dei valori ha conversato affabilmente e si è fatto generosamente fotografare da solo e in compagnia. Intanto si viene a sapere che la figura dell`ex pm verrà interpretata da Antonio Gerardi nella serie televisiva ‘1992’ in onda su Sky Atlantic nelle prossime settimane, diretta da Giuseppe Gagliardi e dedicata alle indagini giudiziarie del pool di Mani pulite. Come passa il tempo. Come non passa mai. Nell`autunno di quello stesso anno fatale (il 1992, appunto) venne pubblicato un sondaggio dai risultati strepitosi, che commentai in un editoriale sulla Stampa. Descrivevo ciò che poteva definirsi lo ‘stile populista’, che così rapidamente si andava affermando attraverso un sempre più intimo rapporto tra politica e comunicazione. Il manifestarsi di una relazione così promiscua poteva considerarsi già allora un`assoluta ovvietà, se non si fosse verificato proprio quando la politica – tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta – pareva assumere una fisionomia sempre più personalizzata e un carattere sempre più emotivo; e quando la comunicazione tendeva a privilegiare il mezzo televisivo e a valorizzare i suoi tratti più espressivi e suggestivi. Ma ciò che mi colpì allora, rivelandomi cosa covasse furiosamente e disordinatamente sotto la cenere, fu il risultato di quel sondaggio, condotto – attenzione – tra i militanti del Partito democratico della sinistra (fondato appena un anno e mezzo prima, dopo l`implosione del Pci). La rilevazione intendeva tracciare il profilo della personalità che meglio potesse interpretare le ‘aspirazioni al cambiamento’ presenti nella società italiana. Avendo vissuto in gioventù una discreta esperienza di sondaggista, sono tra gli esseri umani più sospettosi nei confronti di tale tipo di registrazione degli orientamenti collettivi. E, tuttavia, anche a voler accreditare solo parzialmente i risultati di quel sondaggio, c`era da restare senza parole e da rimanerci ancora oggi. I militanti del principale partito della sinistra italiana indicavano come più apprezzato interprete della volontà di rinnovamento Mario Segni. E poi, tenetevi forte, Nilde Iotti e Gianfranco Funari, praticamente a pari merito e, con un certo distacco, Achille Occhetto, Massimo D`Alema e Michele Santoro. Di questa classifica, prima ancora di considerare l`ordine di arrivo dei competitori, va evidenziata la singolarissima composizione. Il termine ‘melassa’ che, proprio allora cominciava a fare capolino anche nelle cronache politiche, muovendo dall`originaria merceologia degli sciroppi, racconta bene i contorni dell`immaginario espresso dalla selezione di quei nomi. E` la melassa che può ricondurre a unità gli estremi così incomparabili costituiti da Nilde Jotti e Gianfranco Funari, da Mario Segni e Michele Santoro. Ed è solo la melassa che può risultare attraente agli occhi di un militante annichilito da una crisi ideologico-politica addirittura dirompente e, tuttavia, ancora disponibile all`azione collettiva. In altre parole, non possono essere Occhetto e D`Alema a produrre nuove energie e a mobilitarle intorno a un programma politico e a una prospettiva futura: e non può essere nemmeno, chessò, il solo Santoro a venire investito di questo compito. Ma, tutti loro insieme, eccoli diventare prodigiosamente attraenti e, come proprio allora si cominciò a dire, spendibíli sul mercato politico. Come passa il tempo. Come non passa mai. Molto di quanto oggi ci appare come un tratto ricorrente e fin monotono del paesaggio pubblico, risultava allora inedito e davvero sorprendente. Un esempio solo. La lingua domestica, gastronomica e stercoraria di Gianfranco Funari, formatasi nel cabaret e diventata poi espressione di un senso comune sub-popolare, cominciò a farsi discorso politico. A suo modo, certo, e tuttavia discorso politico. Presoci gusto, e indecorosamente blandito da troppi, Funari si volle cimentare anche in un paio di maldestre prove direttamente politiche (come la candidatura a presidente della provincia di Napoli, in qualità di leader del movimento meridionalista Magna Grecia Sud Europa). Ma i tempi evidentemente non erano maturi. Eppure un confronto – fisico, stilistico e linguistico – tra Funari e un altro che si è fatto le ossa con il cabaret, Beppe Grillo, potrebbe avere una certa utilità. Anche se poi, ovviamente, è internet a fare la differenza. Fatte salve alcune abissali diversità (l`estremo livello raggiunto dalla crisi della democrazia italiana e l`esaurirsi delle possibili alternative), resta l`enorme salto che si registra nel sistema della comunicazione pubblica. Dalla passività partecipata e logorroica del mezzo televisivo (‘A bocca aperta’ è il titolo della trasmissione funariana trasmessa dal 1981 al 1983) alla militanza simulata e onanista della politica online e della sua retorica del clic.

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