Esegesi della comicità di Grillo (senza scomodare Bergson) e due parole su Compagna da Ratzinger
Giuliano Ferrara, in un paio di articoli, ha elogiato Beppe Grillo: sotto il profilo politico, va da sé, uno schifo d’uomo, ma sotto quello attoriale un vero fenomeno, per la gestualità, i tempi comici, il ritmo della scansione fonica. Non a caso, il commento più frequente su Grillo è: non condivido ciò che dice, eppure resta un grandissimo comico. Mica vero. Grillo ricorda irresistibilmente quei ragazzini che, avendo azzeccato una volta una battuta o l’imitazione del prof di Religione, sono costretti a ripeterle lungo l’intero ciclo scolastico (se ne libereranno, forse, al secondo anno di Scienze della formazione). E ogni volta la battuta e l’imitazione risulteranno, sì, sempre più puntuali, ma anche sempre più meccaniche e artificiose. Così è per Grillo: a sentirlo oggi, il flusso della sua incontinenza verbale si fa viepiù affannoso, gridato, accaldato. Sotto il profilo della scrittura, ciò può spiegarsi con due tratti della capacità comunicativa di Grillo che egli non riesce a trasformare in risorse espressive, ma che tendono a precipitare in altrettanti rovinosi limiti. Il primo è una sorta di compulsiva logorrea; il secondo è quel tono di compiaciuta civetteria, che accompagna la sua cattiveria e che – lungi dal renderla più acuminata – finisce con l’immeschinirla. Se è vero lo stereotipo che vuole malinconici tutti coloro che fanno ridere, in Grillo si nota altro. Sin dalle sue prime performance emerge un tratto cupo, che infine – nel Grillo politico – si rivela torvo e può diventare truce.
 Ma, a ben vedere, tutto ciò è in qualche modo riconoscibile già nel Fantastico del 1979 e nel Te la do io l’America del 1981 e, ancor più, nel Te h do io il Brasile del 1984. Sia chiaro: siamo in presenza di un bravo comico, dotato di una certa tecnica, ma non certo del livello dei grandissimi che lo hanno preceduto (un solo nome: Walter Chiari) e al di sotto dei suoi più significativi coetanei (Roberto Benigni, Paolo Rossi, Massimo Troisi e Francesco Nuti) e di quelli delle successive generazioni (innanzitutto Antonio Albanese); per non parlare dei Geniali Schizzati, come Maurizio Milani, Paolo Hendel, Daniele Luttazzi e Massimo Boldi (il talento comico più misconosciuto e scialacquato, specialmente per propria colpa). D’accordo, e senza bisogno di citare Henri Bergson, il comico ha mille variabili e cercare un canone unico o ‘il più comico di tutti’ non è impossibile, è piuttosto inutile. D’altra parte, per una definizione culturale ma anche di qualità, più che le classi di età, valgono le biografie sociali e le identità territoriali. Tuttavia, indubitabilmente, Grillo è quello che ha meno classe. E se ha ottenuto un successo enorme si deve al fatto di aver avuto spesso ottimi autori e a una robusta tonalità popolare; e, ancor più, a quel sovraccarico, che possiamo definire ‘politico’, che lo ha reso, ben prima della retorica del Vaffa, un soggetto aggressivo dello scenario pubblico E così, in almeno due fasi della recente storia italiana, quello di Grillo è stato un riso decisamente mainstream. Ma, parallelamente, la sua energia comica si irrigidiva sempre più e, trasferita nella sfera politico-istituzionale, si riduceva a una espressione – riuscita o meno – di quella particolare forma del discorso pubblico che è il ‘pastone televisivo’. Una volta c’erano le battute di Andreotti, oggi ci sono quelle di Grillo. Sotto il profilo squisitamente attoriale, l’interpretazione del primo risulta assai più efficace di quella del secondo (troppo ‘recitata’, appunto). Max Cipollino, converrete, era tutt’altra cosa.
Devozione
In una lettera al Foglio del 15 luglio, il senatore Luigi Compagna, callidamente e perfino un po’ mellifluamente, fa intendere di aver assistito alla finale dei Mondiali tra Germania e Argentina insieme a Joseph Ratzinger. E ciò sarebbe accaduto nel salotto dell’appartamento di quest’ultimo, nel Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo. Nonostante la vocazione dì Compagna a una certa ‘dissimulazione onesta’ (o forse proprio in ragione di essa), tendo a credere a ciò che egli vuol far credere. Alcuni sommessi e, in apparenza, insignificanti dettagli contribuiscono a far pensare che Compagna non menta II nome della suorina francese nell’anticamera, quello dì un segretario diverso dalle figure più note, un delicato ninnolo Thun sul quarto ripiano della libreria, la quasi casualità della presenza del senatore, ma l’indiscussa autorevolezza dei suoi accompagnatori: tutto ciò induce a pensare che davvero una serie di innocue coincidenze lo abbiano portato a essere lì, quel giorno e a quell’ora. La cosa non può far piacere a un ateo devoto come Ferrara, fan entusiasta del Papa emerito, e nemmeno a me, agnostico devoto e critico affettuoso del Pastore tedesco. Come sempre accade, vengono privilegiati i cattivi: in questo caso, è un laico laicissimo, a-confessionale e secolarizzato fino al midollo, a venire accolto nella casa del Padre. Il giudice apre le braccia al più incallito delinquente, Silvio Berlusconi proclama Marco Travaglio il più bravo giornalista italiano, Gesù lava i piedi alla peccatrice, il generale va a cena col lenone, l’erudito ama intrattenersi con l’analfabeta di ritorno. E noi qui, a tirare la carretta e, col dovuto rispetto, a smadonnare.

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