Nessun benaltrismo, per carità. E nemmeno la più piccola tentazione di cambiare discorso o di spostare altrove l`attenzione. E, tantomeno, la pretesa di dire che non sono questi i problemi e che, appunto, ben altra è la priorità. Non c`è dubbio, infatti, che la questione del terrorismo jihadista è – e con tragica urgenza – problema di natura tecnico-militare. Ed esige, di conseguenza, misure, provvedimenti e scelte tecnico-militari. Ma tutto questo che relazione ha col fenomeno dell`immigrazione? E invece, sembra proprio che le strategie della repressione (respingimenti, espulsioni, rimpatri, detenzione, Cie…) abbiano occupato la quasi totalità della discussione pubblica di questi ultimi giorni, in quanto rappresenterebbero le sole soluzioni efficaci. Quanto invece quelle strategie siano drammaticamente carenti e – se adottate unilateralmente – destinate a produrre conseguenze pericolose, lo dimostra in maniera inequivocabile la vicenda di Anis Amri, l`attentatore di Berlino. Anis Amri trascorre quattro anni in un carcere italiano, viene poi trasferito nel Cie di Caltanissetta, e da qui espulso verso il suo paese d`origine – la Tunisia, con il quale l`Italia ha stipulato un accordo di riammissione. Ma i funzionari consolari tunisini non lo riconoscono come proprio connazionale e Amri può tornare in libertà.
L`uomo è stato identificato e fotosegnalato, le sue impronte digitali sono state rilevate e il suo curriculum
(compresa la sua possibile radicalizzazione) è stato depositato nella banca dati comune, cui accedono i servizi d`intelligence e le polizie di tutti i paesi dell`Unione. Il che dimostra come due tra i più acclamati strumenti repressivi possano rivelarsi scarsamente efficaci. Giustissimi, infatti, gli accordi con i paesi extra-comunitari, ma – come nel caso in questione – non sempre sufficienti. E ancor più giusta la cooperazione tra Europol, servizi e polizie dei paesi dell`Unione, ma nel caso di Amri la sua individuazione come soggetto pericoloso e il monitoraggio dei suoi movimenti non sono riusciti a impedire la realizzazione di quel terribile attentato. Tuttavia, coerenza vorrebbe che lì, proprio lì – nel potenziamento degli apparati di intelligence e di polizia, e nella loro massima integrazione – si concentrassero gli uomini e le risorse, i mezzi e le strategie allo scopo di individuare i terroristi e metterli nelle condizioni di non nuocere.
Questo è il punto cruciale, su questo dovrebbe investire il governo, su questo concentrare le forze: e
proprio perché, come si è detto, quella dimensione tecnico-militare è importantissima e urgentissima. Ma ciò comporta, preliminarmente, di distinguere in modo limpido i terroristi da coloro che terroristi non sono. E gli irregolari che si fanno terroristi da quegli irregolari che non sono disposti a farsi terroristi. Impresa difficilissima, ma ancora più ardua se la premessa non detta (e talvolta addirittura vigorosamente negata) è l`equazione irregolare uguale clandestino, uguale terrorista. Se si assume tale equazione, procedendo a ritroso, la politica della repressione applicata al terrorista è destinata fatalmente a essere indirizzata anche contro l`irregolare. Non è solo una questione di linguaggio e, dunque, degli stereotipi nei messaggi trasmessi e nelle rappresentazioni offerte all`opinione pubblica. Sono proprio le politiche annunciate e i provvedimenti anticipati che sembrano portare inevitabilmente a quella perversa omologazione.
Mi spiego.
Il giorno dell`Epifania ho visitato il Cie di Ponte Galeria, all`estrema periferia dì Roma. Un`enorme gabbia, fatta di sbarre di ferro alte cinque metri, che circonda una gabbia di minori dimensioni, a sua volta costituita da altre sbarre di ferro e realizzata Intorno a una gabbia ancor più ridotta, al cui interno si trovano i locali per la notte. `Tutt`intorno, decine di poliziotti, carabinieri e militari. Questo imponente apparato oggi “trattiene” (questo è il termine giuridico) quarantotto donne. Ventidue nigeriane, otto cinesi, tre di etnia rom, e le altre di diverse nazionalità. Nessuna di quelle donne, palesemente, rappresenta una minaccia terroristica o un`insidia per lo stato italiano (e, tra l`altro, alcun provvedimento lo contesta). Ciascuna di loro rappreSenta, piuttosto, un segmento di marginalità sociale:Und figura` della precarietà dei meccanismi di integrazione, un`esperienza di sofferenza umana. Ciascuna di loro richiederebbe assistenza, alcune un`attenta protezione e tutte politiche di inclusione. Ma il Cie è, in assoluto, la struttura che meno può garantire loro ciò di cui più hanno bisogno. Analogo ragionamento può valere per quelle decine di migliaia di irregolari impiegati nell`edilizia, nell`agricoltura e nei servizi. Sono questi i “clandestini” da respingere, espellere, sottoporre a “detenzione amministrativa” nei Cie? Eppure, se ci pensate, di Cie e della loro moltiplicazione («uno per ogni regione») si è curiosamente discusso in queste settimane: quasi fossero la soluzione delle soluzioni. E non, invece, il simulacro di un fallimento.
Nel tempo trascorso dall`approvazione della legge n. 40 del 1998 che ha istituito i Cie, l`identificazione
ha riguardato solo una quota minoritaria degli stranieri trattenuti e i dati, anno dopo anno, dimostrano
che la media dei rimpatri effettuati rispetto all`intera popolazione dei Cie continua ad essere inferiore al
50%. Nel 2015, su 34.107 stranieri sottoposti a un provvedimento di espulsione 15.979 sono stati effettivamente allontanati, circa il 46%. E questo vale non solo per il presunto “lassismo” delle istituzioni italiane. A livello europeo, dei 530.000 cittadini extra Ue destinatari di espulsione, solo il 36% è stato effettivamente rimpatriato. A ciò non si può sopperire attraverso strategie che puntino su respingimenti di massa verso i paesi di partenza, come la Libia. La condanna della Corte europea dei diritti dell`uomo del 2012 parla chiarissimo: rimandare i migranti verso la Libia viola il divieto di espulsioni collettive e il principio di non respingimento, che proibisce di allontanare migranti verso paesi dove potrebbero essere perseguitati o sottoposti a trattamenti inumani o degradanti.
Dunque, il punto di vista dovrebbe essere ribaltato. Dal 2002 è in vigore in Italia un sistema di ingressi per lavoro del tutto inadeguato e capace solo di moltiplicare lavoro nero e sfruttamento (la legge Bossi-Fini), al quale si è ovviato, periodicamente, con una sequenza di sanatorie. È mancata totalmente – e non sembra prevista dai programmi del governo in carica – una nuova normativa, che consenta la regolarizzazione di quelle migliaia e migliaia di lavoratori, presenti in Italia da molto tempo. In assenza di questo, e con provvedimenti che nei fatti rischiano di omologare qualsiasi irregolare a un sospetto terrorista, sarà inevitabile la conseguenza più nefasta. Sospingere verso l`illegalità criminale proprio coloro che vogliono emergere alla legalità della regolarizzazione.