Negli ultimi anni, chi ha meglio tutelato l`onore delle forze di polizia? Coloro che hanno negato pervicacemente abusi documentati e illegalità inequivocabili, oppure chi ha denunciato i singoli reati commessi da singoli pubblici ufficiali? Non c`è dubbio che Patrizia Moretti Aldrovandi, Ilaria Cucchi, Lucia Uva, Domenica Ferrulli e altre ancora abbiano salvaguardato il prestigio delle forze di polizia, assai più di quanto goffamente tentato dai negazionisti (ministri dell`Interno e della Difesa, sindacati corporativi e giovanardi vari). Sono state, infatti, quelle donne intrepide e intelligenti a mostrare le violenze subite dai propri familiari (e parte della magistratura ha dato loro ragione), mettendo sotto accusa non la polizia”, bensì quegli appartenenti a essa che si sono resi responsabili di gravi crimini.
Perché questo è il punto. Un`ampia, seppur non generalizzata, omertà (culturale, cameratesca, emotiva) all`interno delle
polizie e una diffusa sudditanza psicologica da parte della classe politica neì loro confronti, hanno reso l`apparato del controllo e della repressione assai simile a un blocco compatto e intangibile e, dunque, irriformabile. Nonostante lo spirito sinceramente democratico di tantissimi pubblici ufficiali, di tanta parte del sindacalismo e della buona volontà dei più recenti capi della polizia, da Manganelli a Pansa a Gabrielli. Come rompere questa gabbia di stolidità e impotenza che nuoce tanto alle vittime degli abusi quanto alla credibilità dei corpi di polizia e della stessa funzione cui assolvono? In primo luogo occorre approvare, e rapidamente, leggi efficaci e capaci – in base al fondamentale principio che la responsabilità penale è personale di sanzionare gli autori di trattamenti inumani e degradanti, di sevizie e torture, proprio perché manifestazione efferata di abuso di potere da parte di chi, quel potere, esercita in nome della legge e per conto dello Stato. E perché mai un codice identificativo riconoscibile solo dalla magistratura – per gli operatori di polizia in servizio d`ordine pubblico dovrebbe rappresentare un intollerabile accanimento? L`accertamento rigoroso in un`aula di giustizia delle eventuali responsabilità individuali per illegalità commesse all`interno di una caserma o in una cella o nel corso di un arresto o in un centro di identificazione ed espulsione renderebbe chiara la distanza tra gli autori di quei delitti e le istituzioni, ivi comprese quelle disonorate dalle azioni dei loro servitori infedeli. Non siamo tentati nemmeno per un secondo da sentimenti di vendetta sociale, e tantomeno – attenzione – siamo inclini a considerare tortura qualsiasi abuso commesso da pubblici ufficiali o incaricati di pubblici servizi: riconoscere la diversa rilevanza dei fatti è essenziale per non banalizzare la gravità di quelli che, stando alle convenzioni internazionali, configurano il reato di tortura. Ma, se possiamo calare la sofisticata discussione sul destino della nostra Costituzione nell`asprezza della vita quotidiana, quale credibilità potranno mai avere istituzioni incapaci di dare seguito all`unico obbligo di punire prescritto dalla carta fondamentale (articolo 13, comma 4)? Owero quello contro “ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”?


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