Devo molto della mia passione civile e della vocazione al servizio in politica alla storia di un gruppetto di giovani professorini che rappresentarono una delle realtà più vivaci e innovative della Costituente, animati da una profondissima amicizia, da uno spirito di servizio che traspariva anche da una esemplare sobrietà di vita, da una fede profonda che non impedì loro di essere protagonisti di quello straordinario e fecondo incontro di culture che partorì almeno nella sua prima parte, una delle Costituzioni più belle al mondo.
Ho pensato più volte a cosa ci avrebbero detto in queste giornate ‘quelli della comunità del porcellino’, Dossetti, Lazzati, Moro, La Pira, ma anche Calamandrei, Nenni o Togliatti. Uomini che ebbero la forza e la lungimiranza di immaginare uno Stato nazionale capace di sanare ferite e divisioni profonde e di accompagnare le masse popolari alla democrazia, lavorando – senza indugiare o voltarsi indietro – ad una Carta costituzionale che mai si pensò debitrice o guardò con occhi nostalgici alla stagione pre-fascista ma si volle innovativa perché tempi nuovi richiedevano nuovi strumenti. Credo che ci inviterebbero soprattutto ad avere coraggio, il coraggio di mettere – come fecero loro – il vino nuovo in otri nuovi, a difendere i principi della partecipazione e della democrazia senza nostalgia per pur nobili modelli novecenteschi, ad usare la fantasia che serve a costruire il futuro e non ad imbalsamare le istituzioni del passato il cui fallimento spinge oggi ad un’ansia riformatrice dai tratti perfino emergenziali.
Voglio dirlo con franchezza. C’è un errore prospettico in molti anche qualificati interventi che ho ascoltato in queste giornate. Non è questa riforma a mettere a rischio la credibilità ed il funzionamento delle Istituzioni. Non sono le norme su cui discutiamo che hanno allontanato i cittadini dal voto, che hanno tolto autorevolezza alle assemblee rappresentative, che hanno spinto le opinioni pubbliche ad affidarsi talvolta acriticamente a leadership a tendenza populista. È vero l’inverso. Stiamo lavorando con l’ambizione di dare nuovi luoghi e nuovi spazi alla partecipazione ed al protagonismo dei cittadini rispetto una crisi che è miope non riconoscere in tutta la sua gravità.
Qualche giorno fa Ilvo Diamanti ci metteva di fronte all’imporsi di una politica che nel nostro Paese è caratterizzata dall’essere sempre più im-mediata, cioè sempre più veloce ma anche sempre meno intermediata, in cui la leadership prova ad affermarsi senza – o nonostante – corpi intermedi, partiti, giornali, sindacati. Non è l’autoritarismo che ho sentito troppe volte citare con eccesso di disinvoltura anche in questi giorni, ma è certamente un cambio di paradigma rispetto ai modi in cui si partecipava della vita della ‘città dell’uomo’ in quel secondo dopoguerra che ha dato origine alla nostra Carta.
Oggi la nostra, ce lo insegnano i più attenti osservatori, è una società liquida, che vive del protagonismo (e sempre più spesso) della solitudine individualista, società di opinioni pubbliche pronte a repentini cambi di orientamento, spesso in balia di media sempre più pervasivi, non ancora in grado di gestire le potenzialità ed i rischi di una tecnologia che ha cambiato le nostre vite.
Me lo chiedo da padre e da educatore di professione. Abbiamo davvero tenuto conto, scrivendo nuove regole che dovrebbero facilitare la partecipazione dei cittadini, della difficoltà di educare alla fatica della democrazia delle sue mediazioni e delle sue difficili ma necessarie composizioni di interessi e bisogni diversi, le giovani generazioni? Quelle cresciute in una perenne interconnessione e in un’accresciuta capacità di acquisire informazioni che rischiano però di illudersi rispetto alla reale capacità di comprendere tutti i processi o di poterli governare o modificare istantaneamente. Proprio così come si fa cambiando trasmissione televisiva con un telecomando, eliminando con un click un interlocutore sgradito da messenger o twitter o uscendo da una situazione difficile con un’abile mossa ad un videogioco. Generazioni (sempre più ampie) per cui – dobbiamo averne consapevolezza – il lavoro di discussione e di composizione di quasi 8.000 emendamenti cui ci apprestiamo dopo tre mesi di lavoro appare (ma lo sarebbe anche dopo una settimana) superfluo e ‘fuori dal mondo’ come un ballo di corte della decadente Versailles di Maria Antonietta.
E su un altro piano mi chiedo invece se abbiamo fatto tutti gli sforzi necessari per andare al cuore del problema chiedendoci anche a casa nostra – così come ha fatto qualche settimana fa l’Economist in un articolato dossier – ‘cosa non ha funzionato con la democrazia’, ‘cosa è andato storto’? rispetto ad un processo che sembrava irreversibile e che oggi è sempre più a rischio a livello globale. D’altra parte pensiamo a cosa significhi in termini culturali che la Cina, il Paese più grande e con maggior tasso di crescita al mondo per la prima volta nella storia dimostri che la democrazia non è necessaria ed anzi può essere un freno allo sviluppo economico e al benessere. Richiesti di scegliere tra un’economia forte e una democrazia libera l’80% dei Russi in un recente sondaggio ha scelto la prima opzione. Siamo sicuri che i nostri cittadini in un tempo di crisi non rischino davanti a istituzioni che non sanno rinnovare il loro senso profondo e la loro efficienza di dare la stessa risposta?
Proprio per provare a dare risposte a tali quesiti voglio qui ricordare brevemente due proposte che sono qui oggetto anche di emendamenti presentati con ampio consenso trasversale in quest’aula.
Il primo ha come oggetto la possibilità di inserire il referendum propositivo nel nostro ordinamento. In Commissione abbiamo reso più razionali gli istituti della legge di iniziativa popolare e del referendum abrogativo, cercando di renderli strumenti di partecipazione diretta più accessibili e capaci di riavvicinare i cittadini ad un protagonismo istituzionale che negli ultimi anni è venuto meno. Ora possiamo fare un passo in più. Definendo norme che aprano ulteriori spazi di democrazia, e che incanalino in un percorso istituzionale il legittimo desiderio del cittadino di ‘dire la propria’ senza lasciarlo alla illusoria e spesso frustrante prospettiva di lasciare al solo web traccia delle proprie convinzioni. Nella stessa direzione va una proposta del collega Palermo che accanto agli istituti di democrazia diretta, accoglie in Costituzione il riferimento alla democrazia partecipativa che ha visto crescere esperienze importanti e significative soprattutto a livello locale.
Il secondo emendamento che presento con l’appoggio di colleghi di quasi tutti i gruppi dell’Aula, è legato all’ambizione di dare al nuovo Senato, accanto al profilo di Camera delle Autonomie quello di una chiara e forte vocazione europea. Se c’è una responsabilità che in molti avvertiamo rispetto al futuro del nostro Paese è quella di aiutare l’Italia ad uscire dal proprio provincialismo, dall’illusione della autosufficienza, recuperando un legame forte con il mondo che spesso corre a velocità doppia della nostra. È un limite anche delle nostre istituzioni cui vorremmo, attraverso una specializzazione del nuovo Senato, offrire un luogo qualificato di interfaccia con quella UE da cui dipende qualsiasi chance di nostro protagonismo a livello internazionale. Una seconda Camera protagonista nella fase ascendente e discendente della legislazione europea, che eserciti funzioni di raccordo con l’Unione, in particolare con gli organi del Parlamento europeo, e di analisi e valutazione degli atti normativi, delle politiche, dei procedimenti e delle decisioni, anche degli organi di giustizia’.
Un Senato, cioè, pienamente capace di interpretare le previsioni del Trattato di Lisbona, in modo peculiare e per una volta innovativo e in anticipo sui tempi rispetto agli altri partner comunitari.
Un Senato in grado di rappresentare un’eccellenza nel panorama internazionale, valorizzando le competenze della sua struttura messa davvero in condizione di gareggiare con le migliori burocrazie a livello internazionale e di garantire un contributo qualificato lì dove le decisioni contano davvero.
Un Senato – lasciatemelo dire – in cui i partiti siano spinti ad esibire una classe dirigente rinnovata, capace di parlare le lingue straniere, ricca di sensibilità europea e di esperienza internazionale.
A chi teme per gli squilibri nel nuovo sistema bicamerale, sottolineo a questo proposito che forse ben più che in un Senato che ‘freni’ la Camera, la garanzia di adeguati pesi e contrappesi starà nell’equilibrio fra poteri regionali, nazionali, ed europei. E nella prospettiva di garantire ai cittadini spazi ampi di democrazia in quegli Stati Uniti d’Europa che rappresentano l’orizzonte del nostro impegno.
I motivi che mi spingono a considerare questa riforma necessaria, urgentissima, non più rinviabile per superare un’impasse che ci ha per troppi decenni impedito di aggiornare le nostre regole al mondo che cambiava intorno a noi, non mi impediscono comunque di vederne i profili certamente perfettibili.
Anch’io con molti altri colleghi, in un comune impegno di facilitazione dell’iter della riforma, ho segnalato il rischio che le prime ipotesi in discussione portassero a svilire il ruolo di questa Camera, a rischio di diventare semplicemente una conferenza Stato-Regioni ospitata da una sede storica e prestigiosa. La possibilità che il presidente della Repubblica fosse sottratto al suo ruolo di garante e diventasse espressione della mera maggioranza politica, il rischio che i nuovi senatori, non perché eletti indirettamente ma per la coincidenza di funzioni, non siano in grado di esercitare le funzioni importanti che nel frattempo sono state affidate al nuovo Senato. E ancora la pericolosità del combinato disposto con una legge elettorale che va certamente cambiata in molti aspetti soprattutto per restituire ai cittadini il protagonismo nelle scelta dei propri rappresentanti.
Ma sono fiducioso. Molto è stato fatto per superare quei limiti e molto potremo fare. Siamo solo all’inizio di una ‘rivoluzione costituzionale’ una mutazione profonda delle istituzioni nazionali e internazionali che sono certo caratterizzerà i prossimi decenni.
Concludo con un ringraziamento ai relatori. Per il loro impegno e perché le critiche più ingenerose riguardano il lavoro che non si sarebbe fatto in queste settimane in un Parlamento succube e rassegnato davanti ad una presunta volontà totalitaria del Governo. Inviterei tutti noi a non avvalorare questa tesi macchiettistica. Perché fa fare a tutti noi una figura che non meritiamo. Perché dimentica che abbiamo iniziato a discutere di questo provvedimento l’8 aprile, ne abbiamo parlato per settimane in commissione, con circa 70 interventi, una trentina di audizioni e 4.600 emendamenti affrontati. Da quattro giorni siamo in Aula, con trenta ore di dibattito quasi cento interventi e la previsione di quasi 8.000 emendamenti… Ma soprattutto perché fa finta di non vedere che, proprio grazie al lavoro dei relatori, proprio in quel dibattito – e attraverso la normale dialettica con l’Esecutivo – è rintracciabile il nucleo dei tanti emendamenti che hanno reso il testo molto diverso dal testo base, più ricco e capace di rispondere positivamente alle preoccupazioni anche di chi ha critica più aspramente la riforma.
Quello che ci apprestiamo a votare non è il testo del Nazareno come ho sentito ripetere fino alla noia. È il testo di palazzo Madama e gli atti parlamentari lo testimoniano in modo inequivoco. La cosa può non piacere a tutti ma sarà un testo significativamente figlio di questo parlamento, del nostro lavoro di commissione e di aula e lo dico perché come tanti in quest’aula voglio intestarmi come senatore il merito di una scelta coraggiosa che da trent’anni nessuno ha avuto modo di portare a compimento. E perché rigetto l’idea di una riforma imposta da altri e che mette a rischio gli spazi della rappresentanza democratica. Voglio ribadirlo, ricordando ancora una volta ai colleghi più critici del mio partito che legittimamente possono dichiararsi poco soddisfatti, ma che non possono denunciare questo come un cedimento al plebiscitarismo antidemocratico dimenticando come questa proposta, compresa l’elezione di secondo grado, fosse già fotografata con contorni precisi nella quarta tesi dell’Ulivo del 1996.
Cari colleghi, votando questa riforma abbiamo la possibilità di snellire e rendere più efficienti le istituzioni parlamentari, di dare prova della capacità di autoriforma della politica, di dire ai cittadini che vogliamo con loro aprire una stagione capace di reinventare gli strumenti di partecipazione per renderli utili e commisurati alle sfide del nuovo Millennio.
Come ho detto all’inizio mi rendo conto che in un’occasione così straordinaria sia comprensibile sentire tutto il peso dell’irripetibile eredità di chi ha elaborato la Carta Costituzionale quasi settant’anni fa. Ma credo che una generazione debba, se vuole davvero corrispondere alle responsabilità che il proprio tempo le affida, avere il coraggio dell’ambizione, quella che non fa non misurare ogni giorno la distanza con la grandezza dei padri, ma spinge ad impegnarsi per lasciare un pegno per il futuro dei propri figli!
Credetemi, sono certo che ne saremo capaci

Ne Parlano