Siamo in una curva della storia impegnativa, a valle di una crisi sanitaria ed economica senza precedenti, e se manchiamo nei tempi e nei modi l’occasione della ripresa avremo compromesso il futuro delle prossime generazioni.

Con questo approccio le Commissioni riunite Politiche dell’Unione europea e Bilancio del Senato, a cui è stato assegnato il testo del Piano per la Ripresa e la Resilienza, devono affrontare il necessario approfondimento per rendere il documento esaustivo e all’altezza delle necessità del Paese. Ma siamo ancora lontani, io credo, perché pur avendo fra le mani una versione migliore della prima bozza, abbiamo ancora molta strada da compiere per raggiungere la migliore versione possibile. Che deve essere il nostro obiettivo.

Ciò che manca, a mio avviso, già da una prima visione complessiva del testo approvato dal CDM a guida del professore Giuseppe Conte il 12 gennaio scorso, è una regia corale. Il documento appare come un mosaico nel quale si fa fatica a tenere insieme le tessere. Riguardo gender gap e Mezzogiorno, per esempio, si ripetono come un mantra le rispettive ricadute, con un’ossessione che sembra voler colmare quella visione di insieme strategica sul Paese e dunque sul Mezzogiorno, che dovrebbe essere l’architrave dell’intero documento e che invece appare più come un rumore di fondo.

E dunque mi chiedo come si tradurrà il rispetto della clausola del 34% richiesta da tutto il Parlamento, che peraltro andrà applicata solo alle risorse del Next Generation EU, per evitare improprie commistioni o sostituzioni con le risorse del Fondo Sviluppo e Coesione e dei Fondi strutturali. E proprio sulle risorse si apre un’altra questione dirimente, che riguarda cosa verrà finanziato a debito e cosa verrà fatto con risorse a fondo perduto. A oggi non sappiamo ancora quale sarà il criterio per cui andranno usati i grants e quello per il quale occorrerà fare ricorso ai loans.

Va specificato che il Piano è strutturato in missioni, componenti e linee di intervento. Nel documento trasmesso al Parlamento le risorse sono state allocate fino all’ultimo livello, dove avverrà il successivo passaggio di assegnazione ai singoli progetti di investimento.

L’intervento del presidente Draghi in occasione della fiducia al nuovo governo ha chiarito che la governance sarà attribuita al MEF, ma rimane da mettere in piedi il sistema di coordinamento con i Ministri e gli altri livelli di governo, così come quello del monitoraggio dei progressi di avanzamento della spesa.

Un ulteriore passo da compiere sarà definire il processo in base al quale le linee di intervento saranno strutturate in un insieme di progetti. Ciò significa rispondere a una serie di domande: chi saranno i potenziali proponenti? Saranno previste regole speciali per la gestione degli affidamenti? Chi selezionerà i progetti che saranno finanziati?

Un’altra importante riflessione riguarda poi il rischio, da scongiurare assolutamente, che il piano diventi – paradossalmente – un “moltiplicatore” di squilibri: di genere, generazionali e territoriali. Se l’obiettivo è, come deve essere, un riequilibrio di posizioni rispetto alle tre priorità trasversali (Sud, giovani e donne) allora occorre “aiutare chi non è pronto”.

Diversamente, il sostegno andrà a quei contesti che sono già in grado di esprimere capacità progettuale e realizzativa e, dunque, in definitiva, si andrà a penalizzare ulteriormente chi è già in difficoltà. Senza contare, tra l’altro, l’opportunità, anche questa veramente storica, di rimettere in moto una macchina che viaggia a velocità molto ridotta: parlo della Pubblica amministrazione, che abbiamo la possibilità di rendere un primo centro di investimento e non più un mero centro di costo. È certamente una sfida difficile, ma dobbiamo provarci.

Va anche aggiunto un altro elemento di riflessione, che riguarda la polverizzazione delle risorse in tanti micro e medi progetti, una criticità che da sempre appesantisce la nostra capacità di programmazione e gestione dei fondi strutturali. Ecco, la sensazione che si ha è che si stia sfiorando lo stesso errore di impostazione: molte, troppe, priorità e molti, troppi, progetti.

Anche la scelta operata di inserire un pezzo di questo Piano nella legge di bilancio è stata, a mio avviso, una ulteriore sfaccettatura di questa impostazione, che sembra ribadire l’assenza di una visione di insieme che il Piano, invece, dovrebbe avere.

Ma la parte che necessita di maggiore ridefinizione è quella sulle infrastrutture, in particolare del Mezzogiorno. Un Sud il cui ruolo nel Recovery rimane “abbastanza misterioso e, invece dovrebbe essere il perno centrale della strategia di rilancio del processo economico di crescita post pandemico”, come ha voluto sottolineare SVIMEZ in audizione.

Nell’attuale bozza si legge che l’investimento sulla rete ferroviaria porta a compimento i principali assi ferroviari legandoli e integrandoli alla rete AV/AC.  Si afferma che lungo la direttrice Napoli-Bari si estenderà l’Alta velocità per il Sud, con la massima velocizzazione della Salerno-Reggio Calabria e della diagonale da Salerno a Taranto.

Ma le opere previste, salvo verificarne i dettagli nell’elenco dei progetti non ancora disponibile, sono in parte già finanziate. Pensiamo all’Alta velocità Napoli-Bari, che ha da poco ricevuto dalla Banca europea degli investimenti 2 miliardi di euro e risultava essere inserita nei progetti di finanziamento da molti anni.

Ci si chiede, allora, se i progetti infrastrutturali inseriti nel Recovery Plan di fatto andranno a sostituire canali di finanziamento già attivati.  Potrebbe essere utile per beneficiare di tempi e procedure snelle, ma in tal caso le risorse liberate dal Recovery non possono essere destinate ad altri progetti? Penso, a titolo di immediato esempio, a quei progetti che non rispettano gli stringenti requisiti del Piano europeo, ma rispondono invece a precisi interessi nazionali di sviluppo come l’ammodernamento della rete stradale e autostradale nel Sud del Paese. Su questo, infatti, il Piano prevede appena 1,6 miliardi e solo per la messa in sicurezza e monitoraggio digitale di strade, viadotti e ponti. Ma penso anche alle ulteriori tratte dell’Alta velocità che, pur potendo ricadere nel Recovery, non lo sono per raggiunti limiti di spesa.

Prendendo a esempio la mia regione, la Puglia: perché l’Alta velocità non può arrivare sino a Lecce, capoluogo di un territorio dal forte appeal turistico?  Perché accontentarsi di un approccio “minimalista” che di fatto mortifica ambizioni – legittime – e aspettative – altrettanto legittime?

Emerge, poi, con una certa rilevanza la questione dei porti, dove la centralità del Mediterraneo è tenuta quasi nascosta. Ci sono Genova e Trieste come porti-ponte dei traffici da e per il vicino-medio-estremo oriente, ma sono ignorate realtà come Gioia Tauro, Augusta o Taranto. Altre linee di intervento, in coerenza con la pianificazione strategica di Italia Veloce, riguardano l’ultimo miglio ferroviario e stradale per i porti di Venezia, Ancona, Civitavecchia, Napoli e Salerno. Il basso Adriatico è inspiegabilmente lasciato fuori. Viene previsto l’aumento della capacità portuale per Ravenna, Cagliari, La Spezia, Napoli, Trapani e Venezia, ma non c’è la Puglia.

L’accessibilità marina prevede interventi per Taranto e Brindisi, ma si parla di potenziare i porti del Sud per fini prettamente turistici “resistendo maggiormente alla concorrenza dei porti del Nord Africa”. Perché “resistere” e non invece “competere”? Perché limitare la loro funzione all’aspetto turistico, mortificando la piattaforma logistica naturale che ha il Sud Italia nel Mediterraneo? È singolare che il ruolo strategico nel Mediterraneo delle nostre Regioni meridionali sia tenuto nella massima considerazione da altri Stati ma non dal nostro.

Insomma, come si fa a rendere l’Italia protagonista nel Mediterraneo quando il progetto integrato sui porti d’Italia ha solamente una dotazione di 3,68 miliardi? C’è un piano nazionale per i porti? Si individuano le potenzialità di ogni intervento rispetto all’ambito economico? È prevista un’analisi per ogni progetto relativo all’aumento della capacità dei porti sulla base degli obiettivi del Next generation, che sono in particolare il miglioramento dell’impatto ambientale e della coesione sociale e la convergenza all’interno dell’Unione?

A corollario di quelle che ritengo “debolezze” del piano, segnalo la questione delle Zes, che, non a caso, vengono citate solo una volta nell’intero documento. Si afferma come sia indispensabile valorizzarne il ruolo vicino alle aree portuali del Sud con l’obiettivo di attrarre investimenti produttivi. Ma se le ZES non sono inserite in un infrastrutturale complesso, come si pretende che funzionino? Se non si investe nei porti e nella mobilità veloce in generale, ribadendo anzi la vocazione prettamente turistica degli stessi, le ZES non hanno ragione d’essere.

Altro punto da rafforzare, riguarda il turismo e la cultura. Considerata la centralità della materia (la cultura è futuro, è e si presta al digitale, tanto per dire) è poco incoraggiante che venga trattata in modo un po’ troppo modesto, in una cornice peraltro frammentata e fragile. Oltre al fatto che non viene debitamente riconosciuto il valore aggiunto dell’enorme patrimonio di bellezze naturali e culturali che dovrebbero essere valorizzate per l’evidente attrazione che possono rivestire per il turismo.

È con la crescita infatti che misureremo i risultati del Next Generation EU, insieme alla verifica della sostenibilità del debito pubblico. Per questo, come ricordato dal professor Draghi in un’intervista a dicembre scorso, è necessaria una valutazione molto attenta del tasso di rendimento dei progetti che saranno finanziati.

Il termine per la presentazione del piano è il prossimo 30 aprile: abbiamo ancora tempo per fare e per fare bene. Ma soprattutto, abbiamo il dovere di fare bene.


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