Nel suo articolo di ieri, Alfredo Reichlin va alla radice dell`instabilità profonda dell`assetto politico e istituzionale del nostro Paese. Tocca il cuore della questione che più di ogni altra sta rallentando il nostro sviluppo economico.
Una questione che sta insidiando la stabilità sociale e intralciando la nostra autorevolezza internazionale: la crisi dello Stato, delle sue istituzioni centrali e periferiche, dei corpi pubblici sia tecnici che amministrativi.
Per l`Italia la crisi dello Stato è un`enorme questione democratica. Se lo Stato è debole, la società diventa preda di interessi di parte, dei poteri finanziari, delle corporazioni, delle burocrazie nazionali e internazionali. E oggi anche della malavita organizzata.
Negli ultimi decenni l`Italia democratica ha saputo sconfiggere il terrorismo rosso e lo stragismo fascista. Ha abbattuto l`inflazione a due cifre degli anni 70. Ha isolato quello che Reichlin chiama «liberismo straccione alla Berlusconi». Tuttavia non è riuscita a ricostruire la sua sfibrata struttura pubblica, a ridare forza ed efficienza allo Stato, a trasformare un apparato pubblico debole in una macchina democratica capace di decidere e di guidare i cambiamenti profondi e velocissimi del nostro tempo, di cavalcare i grandi processi di rinnovamento, di sviluppo, di rendere più efficace la lotta alla corruzione, all`evasione e all`elusione fiscale.
Nel 1963 è stata l`assenza di una struttura statale forte a far dire a Pietro Nenni, appena giunto a Palazzo Chigi come vice di Aldo Moro, che nella stanza dei bottoni mancavano i bottoni! L`avrebbero potuto dire tutti i Presidenti del Consiglio che si sono succeduti da allora sino ad oggi. Nessun potere politico democratico può farcela senza istituzioni e apparati pubblici efficienti ed efficaci.
La domanda che dobbiamo farci è da dove deve iniziare l`opera di ricostruzione dello Stato.
Sinora, tutti i tentativi del centrosinistra e anche della destra sono partiti dalla revisione della seconda parte della Costituzione. Lo ha fatto in misura molto, molto incisiva Massimo D`Alema con la sua bicamerale arrivando sino a prevedere l`elezione popolare diretta del Capo dello Stato. Ci ha provato Silvio Berlusconi. Hanno tentato Ciriaco De Mita e Nilde Ioni. Ha provato Luciano Violante con la sua famosa «bozza».
Proposte diverse, ma l`analisi di tutte conduceva alla medesima diagnosi: per rispondere alla crisi dello Stato serve una seria
riforma delle strutture di guida e di decisione della democrazia.
Non è «l`illusione della semplificazione», come recita il titolo dell`articolo di Reichlin, ad aver mosso negli ultimi trent`anni, con diversi livelli di prudenza, tanti leader democratici. É la consapevolezza che la riforma dello Stato non può che partire da lì, dalla seconda parte della Costituzione.
Tra poche settimane gli italiani dovranno esprimersi con un Referendum su una riforma approvata dal Parlamento dopo due anni di
lavoro. Una riforma che tocca solo ed esclusivamente quella seconda parte della Carta che in così tanti hanno cercato di modificare.
Al contrario di Reichlin, io voterò sì. E non lo farò per far sopravvivere il governo Renzi né, tanto meno, perché attratto dall`uomo solo al comando. Nessuna democrazia può essere governata da una persona sola e io, personalmente, non sarei mai in grado di convivere con una tendenza autoritaria. Ma non si può evocare il plebiscito per negare il valore del voto dei cittadini al referendum.
La Costituzione del `48 non avrebbe mai visto la luce se Togliatti e De Gasperi, Nenni e Dossetti, avessero affrontato la discussione sulla Carta pensando alla strategia politica del momento. La Costituzione deve essere difesa dall`invadenza degli interessi politici del giorno.
Voterò sì perché penso che senza un intervento urgente sul bicameralismo paritario, sul Senato delle autonomie, senza porre un freno allo smodato uso dei decreti legge, senza rivedere il rapporto tra gli interessi delle autonomie Se lo Stato è debole
la società diventa preda di interessi di parte, dei poteri finanziari e delle burocrazie regionali e l`unità della Repubblica, senza norme che facilitino l`uso del referendum popolare e garantiscano più efficacia all`iniziativa popolare, penso che senza tutto questo la necessaria riforma dello Stato è destinata a non iniziare nemmeno questa volta.
Ma voterò Sì anche per coerenza con l`esplicita generale approvazione di tutti i parlamentari – e di tutti i democratici che lo ascoltavano fuori dal Parlamento – del discorso con cui, nell`aprile del 2013, Giorgio Napolitano ci impegnava solennemente ad approvare finalmente, dopo decenni, la riforma della Costituzione.
Una sola osservazione sulla storia del referendum plebiscitario. Non ho idea di cosa farà Renzi dopo il 4 dicembre. Sia che vinca il sì sia che vinca il no, la responsabilità è sua. Ma so che se, dopo due anni di lavori parlamentari e sei voti tra Camera e Senato, dovesse vincere il no sarebbe, prima ancora del governo, il Parlamento a dover riflettere sulla bocciatura del popolo sovrano. Ma il filo che tiene insieme l`intero articolo di Reichlin è il ragionamento sul Partito democratico, sulla sorte che ne ha fatto l`asse politico su cui poggia «l`evoluzione democratica del Paese».
Non voglio sfuggire alla questione.
Il Pd è giovane, ma ha basi antiche. La sua esistenza è stata turbata da un vertice spesso rissoso. Ne sanno qualcosa Romano Prodi e Walter Veltroni. Ma il nostro peccato più grave è non aver dedicato abbastanza tempo, riflessioni, studio, alla nuova forma partito, alla sua missione politica, alle regole interne che debbono disciplinare la nostra attività. Non è un caso se neanche il Pd – come neppure i partiti da cui è nato – ha mai spinto con decisione per l`attuazione dell`art. 49 della Costituzione che dispone di regolare i partiti con «metodo democratico».
Sarebbe oggi ingeneroso giudicare il Pd e analizzarne le prospettive sulla base delle alleanze necessitate che costrinsero Mario Monti a chiedere la fiducia sia al Pd che a Berlusconi. Così come sarebbe ingeneroso farlo per i governi di Enrico Letta e Matteo Renzi, figli della sconfitta del Pd alle elezioni del 2013.
Il futuro del Pd non può che essere in una forte alleanza tra la sinistra e il centro democratico, lungo una tradizione che parte da De Gasperi (il centro che guarda a sinistra), dal Togliatti della Costituente e passa per la lungimiranza politica di Moro e Berlinguer. Ora, è tutto nelle nostre mani.


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