Roncalli e Wojtyla hanno interpretato il Papato in modo differente e hanno interpellato credenti e non
Venticinque gennaio 1959. Giovanni XXIII, nella Sala Capitolare del monastero di San Paolo Fuori le Mura, dà al Sacro Collegio e al mondo uno storico annuncio. È il momento più intenso e solenne del suo pontificato: «Pronunciamo dinnanzì a voi, certo tremando un poco di commozione, ma insieme con umile risolutezza di proposito, il nome e la proposta di un Concilio Ecumenico per la Chiesa Universale».
 Aveva capito che il Vangelo andava predicato a un mondo nel quale un uomo su quattro era cinese, due su tre non mangiavano abbastanza per sfamarsi, uno su tre viveva in regime comunista, un cristiano su due non era cattolico. Il suo ecumenismo non esaltava solo valori spirituali e ideali: era in cerca di ciò che unisce, rifuggiva da antiche polemiche. Prima di morire dirà: «Ho cercato il bene di tutti».
Fu un papato fortemente pastorale, che sanciva la rinuncia a qualunque potere politico di una Chiesa pienamente dedita al suo ministero di salvezza, cominciando dalla causa della pace. Un impegno cui non poté assegnare rigorose scadenze, ma che comunicò il suo ottimismo, e il suo coraggio, ai segni dei tempi. A testimoniare quella ricchezza umana non resterà soltanto il «discorso della Luna» e della «carezza ai bambini»: fu assai di più a renderla memorabile. Il compito da salvare non aveva il suo fondamento in un diritto positivo, ma nel criterio della condivisione, perciò Cristo doveva essere «disordine».
Roncalli e Wojtyla, due personalità e due interpreti messi insieme non tanto dal loro rispettivo ‘modello’, quanto dal loro comune ‘esempio’. È un giudizio che interpella credenti e non credenti: nessuno può dire che un Papa di questi tempi abbia rappresentato più e meglio di Giovanni Paolo II le realtà umane e spirituali, sociali e storiche dell`epoca nostra. Instancabile, nient`affatto celeste nel proporre l`imitazione di Gesù, è stato esemplare non solo il suo mostrarci un modello di misericordia, ma anche l`esempio di un Cristo che alle Beatitudini ha indissolubilmente legato quel drammatico «guai a voi»; un monito che ripeterà, quasi brandendo il pastorale, rivolgendosi alla mafia con il grido: «Convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!». Wojtyla, richiamandosi all`ottimismo giovanneo e all`inquietudine paolina, non ci ha esortato a scommettere su Dio, lanciando i dadi di Pascal, ma a riconoscerlo nell`uomo, facendo tutt`uno di noi e del Figlio venuto a condividere la nostra umanità, specie la più attardata, sofferente, infelice. A quanti gli hanno opposto la questione del dolore, specialmente dei bambini, non ha risposto con strettoie teologiche e meno ancora messianiche; estraneo com`era per cultura e per fede a vibrazioni estenuate, emozionanti, intimidenti, invitò a varcare la soglia della fede e della speranza; non è facile dimenticare come a Tor Vergata si tenne stretto al petto, e per quanto tempo, quel bimbetto col viso unito al suo, quasi sentisse di viverne la paternità. Quella immagine commosse il mondo. E ad Assisi, nella grande assemblea ecumenica, invitò a non credere in una preghiera che da un pulpito o da una cattedra, da una panca o da uno stuoino, pretendesse di salire più in alto di tutte le altre.
Due Papi santi – con Francesco e Benedetto a volerne celebrare, insieme, la canonizzazione – hanno tenuto svegli, dalle metropoli alle savane, oltre 2 miliardi di uomini e donne. Una prova di fede, di sensibilità e di attenzione universale in un momento che vede tanta parte del pianeta alle prese con le perdite, in mille forme, della dignità umana. Senza far sconti a nessuno, neppure alla Chiesa.

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