Il tempo che ci è toccato di vivere ha reso, tutti, figli del numero. Nulla ne è rimasto indenne, neppure la politica che ha già tanti problemi da governare; con il risultato di porre questioni come la delicata materia del voto.
Tant’è che l’opinione pubblica, quella ancora fiduciosa e responsabile, ha chiesto di far luce sulla vicenda delle tessere e dei militanti non più della prima, ma dell’ultima ora. Un avvilente vociare, insomma, si confronta con sdegni virtuosi e civili, vagamente foscoliani. Un rischio reale nasce dal credere che una cosa possibile sia, per ciò stesso, anche lecita; e la politica, nella versatilità dei suoi percorsi, possa qua e là inciamparvi. Ignazio Silone aveva già avvertito: senza regole e certezze, parlare e mentire diventeranno sinonimi; e il profetico caso, legato alla successione del presidente Napolitano, continua a interpellare la politica sui voti mancanti a Romano Prodi, con tanti saluti alla «disciplina di partito» manomessa in quei confessionali laici, simili alle cabine elettorali, allestiti in circostanze spe-ciali nelle Camere riunite a Montecitorio; do-ve la «carica dei 101» contro l’indirizzo unitario del Pd fu l’esplicito annuncio di nuove, ben più complesse asperità. E se non si poté giudicare eticamente limpido, allora, il venir meno a una decisione concordata dal partito, non è certo edificante, oggi, un proselitismo di giornata accompagnato, di rincalzo, da inu¬sitati tesseramenti. Le cose stanno complicandosi proprio nelle forze più strutturate secondo le regole della politica, per giunta alle prese con la prova ardua e meritoria del governo guidato da Letta, mentre gli effetti della crisi economica in ogni ambito della vita privata e pubblica stanno creando nuovi modi di pensare e di agire, fondati sulla paura e sulla delusione, che favoriscono una desolante lettura solo pragmatica della realtà, e anche qui andrebbe ascoltata la voce di Napolitano. È pericoloso abbandonare un «umanesimo politico» insidiato e via via corrotto da una strisciante deriva deterministica, mentre non c’è mai stato tanto bisogno di rianimare un’etica sottomessa a ogni genere di subdolo praticismo. Eppure la politica sta vivendo una temperie attraversata anche da una forma, seppur controversa, di generosità: per esempio dal tener fede all’inderogabile bisogno di governare, dovendo al tempo stesso rispondere alle obiezioni di quanti, nel proprio partito, ne prendono le distanze. Due dissimili e ugualmente insidiose problematiche interne costringono i due partiti maggiori, Pd e Pdl, a gestire una realtà strabica, volta a salvaguardare l’intesa su cui si regge la compagine governativa nonostante che le rispettive parti disomogenee le siano riluttanti e persino ostili. Ciò genera la difficoltà di mostrare all’elettorato il volto di una politica, anziché di due manovre operanti, insieme, nella prospettiva di salvare e far cadere il governo. A ben vedere, non è abbastanza vigile la percezione del pericolo che correremmo – popolo e partiti, politiche e governi, istituzioni e democrazia – se prevalesse uno scenario che annullasse i risultati raggiunti da un Paese si¬no a ieri giudicato, ovunque, incapace di trarsi da una voragine. È in atto, si va dicendo, una crisi anche dell’identità. Il partito mera¬mente ideologico e strumentale non è più, per fortuna, la «cinghia di trasmissione» di una politica che a sua volta ha laicizzato la propria natura. Occorrerebbe il soprassalto di un consapevole civismo che azzerasse i lasciti di dogmatiche forme identitarie, sconfitte dalla tecnologia, dalla velocità, dalla comu-nicazione, in definitiva dall’essere tutti dive-nuti «figli dei numeri», seppure non possa darsi che un «numero» abbia in sé, ontologicamente, un’intenzione, uno scopo. Un vecchio comunista, con una punta di benevolenza per gli scrupoli dei suoi tempi, racconta che nessuno poteva iscriversi al partito se non presentato da due compagni che ne garantissero l’idoneità; e sorride, indulgente, alle inquietudini dei tempi nuovi. Oggi, a far fede, non è più solo la fede, può bastare l’aritmetica, con un procedere perlopiù privo di ancoraggi ideali e politici. Ma l’identità, in natura, non spunta come il grano. Così come il numero non è la politica. Ne è l’effetto non l’essenza; l’aspetto non la natura. Lo è quando cresce nel cuore del problema e dunque sta, per così dire, come nel frutto il suo sapore. Finora, galleggiando tra primarie e congresso (Pd), unità e divisione (Pdl), la metafora continua a rappresentare una palese lontananza tra realtà e sembianze, calcoli e valori. E poiché si cresce in virtù dei problemi che siamo costretti a risolvere, va messo in conto che anche il cambiamento ha le sue regole: per esempio il dover capire che il pericolo lo si esorcizza affrontandolo in tempo, non con l’idea rassegnata che solo la Storia sa fare i suoi (cioè i nostri) conti; mentre la politica esige ogni giorno, in ogni momento, il suo oneroso, inevitabile doverne rispondere. Nel nome di tutti, e quindi di tutto, specie se i contrasti e le divisioni prevalgono sulla coesione e i progetti creando l’impressione che si ragioni non su come distribuire compiti e competenze – cioè lavorando per una nuova visione e un nuovo animo del Paese – ma per garantirsi un ruolo nelle geometrie del potere. Sembrerà un’equazione retorica, ma sarebbe un lascito devastante se perdurasse la tendenza a credere che un opportunistico uso della politica, unito alla disastrosa interpretazione che ne trae l’antipolitica, abbiano già una sorta di slogan nell’elogio dell’inutilità: un dato sciaguratamente eluso ci avverte che un terzo degli elettori dell’Occidente diserta le urne perché non crede più all’utilità del proprio voto, e che altrettanti cittadini rifiutano chiunque, della classe dirigente, venga giudicato estraneo ai canoni del rigore civile e morale; cioè quando politica e numero non rappresentino «lo scopo e il mezzo» al servizio di una società da rigenerare per una vita da voler vivere in una trasparente, solidale comunità.

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