Ho sottoscritto convintamente i sette emendamenti, presentati da un gruppo di senatori del Partito democratico, alla legge delega di riforma del mercato del lavoro. Non per questo sono un anti-renziano. Per molte ragioni e, soprattutto, perché non sono, per contrasto, bersaniano, cuperliano, lettiano, civatiano, fassiniano (nel senso di ‘né con Fassina né con Passino’).
Sono manconiano di stretta osservanza e di antica militanza. Dunque, come è giusto, decisamente solo nel partito, seppure – grazie al cielo – non isolato. E interamente dedito, sul piano politico, alle questioni – che considero le più politiche tra tutte – che seguo da decenni, sia come studioso sia come militante: le tematiche, cioè, del fine vita e dell`autodeterminazione del paziente, quelle della privazione della libertà e dei sistemi del controllo e della repressione, quelle dei movimenti migratori e dei conflitti etnici. 
Più n generale, problematiche di diritti e di garanzie, di autonomia individuale e di tutele collettive. Per quanto riguarda la mia recente attività parlamentare, ripresa dopo un intervallo di dodici armi, ho votato il più delle volte secondo le indicazioni del Pd. Non proprio per la motivazione così soavemente ricordata da Debora Serracchiani (ovvero perché, come gli altri, sono stato «eletto con e grazie al Pd»), che pure ha un suo peso, ma per una ragione di merito politico. Perché capisco, cioè, la strategia dell`attuale leadership del Pd anche quando non la condivido.
E, infatti, ho votato a favore della ‘riforma’ del senato pur se perplesso su molti punti e decisamente critico su altri. Tuttavia, non mi sono unito ai dissidenti e al loro voto contrario perché mi considero per una quota parte, sia pure piccina piccina, co-responsabile delle sconfitte politiche e culturali della sinistra italiana (ma non mi devo montare la testa: so bene che il mio peso politico in questi armi è stato assai esile). Di conseguenza, ho pensato che la ‘riforma’ del senato corrispondesse a una tendenza (in senso stretto ‘ideologica’), che ha radici profonde, consensi diffusi e persino qualche buona ragione. Una tendenza alla quale non ero e non sono in grado di oppormi. E, soprattutto, alla quale non mi sento di oppormi, perché non ‘titolato'(moralmente, diciamo) a farlo: in quanto reduce, insieme a troppi altri, da troppi fallimenti. E dunque, non autorizzato a dare lezioni, ad ammonire, a predicare. E adesso? Adesso ho sottoscritto i sette emendamenti alla legge delega di riforma del mercato del lavoro. Non certo, come paventava ieri Stefano Menichini, per dare ‘testimonianza’ di un dissenso, ma per un motivo diametralmente contrario. Per trovare, cioè, una soluzione razionale e intelligente, capace allo stesso tempo di salvaguardare un principio che non ha nulla di retorico o di passatista o di ideologico. E che corrisponde, piuttosto, alla fondamentale esigenza di tutelare garanzie individuali e spazi di libertà economica, professionale e soggettiva.
Non solo. Se è vero, come scrive ancora Menichini, che il progetto complessivo del governo è quello di «estendere in senso universalistico le coperture degli ammortizzatori sociali», è sensato (e ‘spiegabile’ ai destinatari del provvedimento e a me) che una simile ardua impresa cominci proprio riducendo le garanzie oggi vigenti? E magari introducendo un`ulteriore frattura tra dipendenti anziani e giovani neo-assunti? E come non ricordare che, appena qualche giorno fa, il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, sosteneva che l`articolo 18 riguardasse una realtà «percentualmente non fondamentale»? E altrettanto è stato detto e ridetto, ormai da mesi, dallo stesso presidente del consiglio.
Dunque, davvero sembra che la centralità assunta, nelle ultimissime ore, dalla questione dell`articolo 18 risponda alle regole di un conflitto simulato. O a quelle di un gioco di ruolo che prevede abiti spettacolari, prestazioni attoriali e mosse calcolate. Eppure, dietro questo scenario immaginifico, a me pare di poter cogliere qualcosa di autentico e di assai corposo. Qualcosa che ha a che vedere con una identità non tutta impresentabile e con una storia non tutta da dimenticare. E posso affermarlo senza alcuna retorica, dal momento che ormai da quarant`anni non penso più che «la classe operaia deve dirigere tutto». E tuttavia dico, con la massima semplicità, che preferisco perdere ancora piuttosto che accreditare un`utopia regressiva: ovvero che contribuire al licenziamento di qualcuno possa rappresentare un successo.

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