Il 15 dicembre scorso la Corte d`assise di Lecce ha condannato in primo grado sei persone per la morte di un bancario leccese di trentaquattro anni, Simone Renda, nel carcere di Cancun, in Messico. Morte avvenuta esattamente dieci anni fa, i13 marzo del 2007. Due giorni prima, Renda si accingeva a ripartire per l`Italia al termine di un viaggio in quel paese.
Ma, a seguito di un alterco con il personale dell`albergo in cui alloggiava a Playa del Carmen, viene arrestato dalla polizia turistica.
Un`ora dopo è in carcere e viene visitato dal medico dell`istituto, il quale riscontra disidratazione, ipersudorazione ed elevata
pressione arteriosa, diagnosticando un probabile infarto e sollecitando un immediato ricovero ospedaliero. Ciò nonostante, nessun provvedimento venne adottato dal vicedirettore del carcere e quarantadue ore dopo, alle otto del mattino del 3 marzo, Simone Renda muore nella cella dove era rinchiuso.
Durante quelle lunghe ore di detenzione, Renda non fu mai più visitato da un medico e non gli vennero somministrati né acqua né cibo. Inevitabilmente le sue condizioni si aggravarono fino alla morte. Questa storia, così simile ad altre avvenute in Italia, non solo in carcere, non ha avuto l`attenzione che merita e che i risultati processuali, giustamente, le restituiscono.
All`indomani della morte del nostro connazionale, la Procura generale dello Stato di Quintana Roo avvia un`indagine penale ed emette un ordine di cattura nei confronti di tre funzionari (il vice-direttore dell`istituto, il comandante della polizia penitenziaria e il responsabile dell`accettazione) e del giudice che avrebbe dovuto convalidare immediatamente l`arresto di Renda, ma che lo fece solo il giorno successivo.
I19 marzo 2011 il Tribunale degli Stati uniti messicani condanna tutti gli accusati, tranne il vicedirettore del carcere, per abuso di potere e omicidio colposo. Ma la storia non finisce qui. Infatti, a seguito di alcune iniziative parlamentari e dell`impegno delle
autorità diplomatiche italiane in Messico, anche la Procura della Repubblica di Lecce aveva avviato delle proprie indagini per individuare
le responsabilità nella morte di Renda, allargando il campo a due poliziotti penitenziari che – pur conoscendo le gravissime condizioni di salute di Renda – nulla fecero per porvi rimedio.
Così, nel marzo del 2010, prima che si concludesse il procedimento messicano, il Pubblico ministero chiede il rinvio a giudizio delle quattro persone sotto processo in Messico, degli altri due poliziotti già sottoposti aindagini e degli agenti della polizia turistica che avevano arrestato Renda in albergo. Gli imputati sono accusati di omicidio volontario e di violazione della Convenzione Onu contro la tortura, ratificata dall`Italia nel 1988. E qui la cosa si fa particolarmente interessante, perché quella convenzione, ratificata all`Italia, ma mai compiutamente attuata con la previsione di un apposito reato, in questo modo viene forse per la prima volta apertamente richiamata in un tribunale italiano. E non semplicemente in via argomentativa: ovvero per affermare che i fatti sotto processo avrebbero potuto essere qualificati come tortura se il reato fosse previsto dai nostri codici. No, anche direttamente come norma violata e dunque capace di giustificare il processo e l`eventuale decisione sanzionatoria.
Attenzione: questo è un punto cruciale, che rende questa vicenda giudiziaria ancora più significativa e che potrebbe costituire un importantissimo precedente. Com`è ovvio, le quattro persone già giudicate in Messico contestarono il nuovo pkocesso italiano, sulla base del principio del “ne bis in idem” (nessuno può essere processato due volte per il medesimo fatto).
Tuttavia la Corte di assise di Lecce ha rigettato l`eccezione della difesa, rilevando innanzitutto che lo Stato italiano non è vincolato
da alcuna convenzione internazionale o bilaterale che comporti il riconoscimento di un giudizio formatosi in Messico. E, poi, ha sottolineato la diversa qualificazione giuridica del fatto (lì si è proceduto per omicidio colposo, qui per omicidio volontario e violazione della convenzione Onu contro la tortura) e delle stesse imputazioni, allargate alla polizia negligente. Da qui – acquisita l`autorizzazione del Ministro della giustizia – il via libera al rinnovamento del giudizio per reati commessi all`estero nei confronti di un cittadino italiano e, alla fine, la condanna di sei degli otto imputati (tutti, tranne gli appartenenti alla polizia turistica che avevano arrestato e consegnato in carcere Renda).
La famiglia e le istituzioni
Come sempre, in questo come in simili casi, fondamentale è stata l`intelligente tenacia dei familiari, e in particolare della madre di Simone, Cecilia Greco, l`appassionata competenza degli avvocati Pasquale Corleto e Fabio Valenti, e la sensibilità istituzionale, da quella dei parlamentari che per primi si fecero tramite delle denunce della famiglia a quella dell`ambasciatore e dell`agente consolare a Playa del Carmen, a quella della magistratura inquirente e giudicante. Tutti, sia ben chiaro, hanno fatto “solo il loro dovere”, ma
c`è modo e modo di assolvere ai propri compiti istituzionali, e qui è stato certamente seguito quello più efficace.
E ancora, merita di essere sottolineata la scelta del pubblico ministero prima e della Corte d`assise poi, del riconoscimento della sussistenza del reato di tortura così come già oggi definito dalla Convenzione delle Nazioni unite.
A seguito di una ricostruzione analitica della normativa internazionale e della sua ricezione nell`ordinamento giuridico italiano, la Corte di appello individua, infatti, puntualmente gli atti di tortura cui è stato sottoposto Simone Renda: la reclusione immotivata, senza possibilità di difesa e in stato confusionale; Il trattenimento in cella oltre i termini di legge; l`assenza di quelle cure urgenti prescritte dal medico del penitenziario; lo stato di abbandono senza ricambio di vestiti, senza cibo e senza acqua. Da qui le condanne di tutti gli imputati, in concorso tra loro, per omicidio volontario e tortura.


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