E’ firmata dal presidente Zanda e, tra gli altri, dai senatori Vaccari, Caleo, Puppato. Propone anche di impiegare i cassintegrati per manutenzione territorio No a nuovi condoni edilizi, un piano straordinario di manutenzione del territorio finanziato in deroga al patto di stabilità e attuato anche impiegando i cassintegrati insieme con gli agricoltori, riforma della governance per rendere operative le autorità di bacino e più efficace l’opera della Protezione civile, attuazione delle direttive comunitarie in materia di corsi d’acqua ed alluvioni, stop ad interventi d’emergenza e di sola ‘difesa passiva’ come gli argini ma adozione di un’ottica integrata di prevenzione e difesa del suolo, assicurazione contro le calamità naturali anche per i privati. Sono queste le principali ricette contro i danni da alluvioni e contro il dissesto idrogeologico contenute in una mozione al governo, presentata dal presidente del gruppo Pd al Senato Luigi Zanda e sottoscritta dai senatori democratici Stefano Vaccari, Massimo Caleo, Vito Vattuone, Franco Mirabelli, Pasquale Sollo, Laura Puppato e Cecilia Guerra. ‘In Italia – spiegano i senatori Pd – il rischio di frane e di alluvioni riguarda tutto il territorio nazionale, con l’89 per cento dei comuni soggetti a rischio idrogeologico e 5,8 milioni di persone sotto costante minaccia. il Paese è fortemente antropizzato, con una densità media pari a 189 abitanti per chilometro quadrato contro i 118 della media europea, ma il consumo di suolo è cresciuto al ritmo impressionante di 244 mila ettari di nuovo territorio ‘mangiato’ ogni anno da cemento ed asfalto. Le scarse risorse disponibili vengono impegnate più per far fronte all’emergenza alluvioni e dissesto, che per la prevenzione, in un’ottica di intervento ex post che non è più efficace né sostenibile. E’ per questo che chiediamo al governo di cambiare prospettiva. E’ necessario aderire alla strategia europea in materia di difesa del suolo, che si fonda sul cambiamento del modello di sviluppo attraverso scelte di destinazione d’uso del territorio, sulla ricostruzione ecologica dei corsi d’acqua, sull’agricoltura come presidio del territorio, sull’analisi economica dei processi decisionali, sulle politiche di adattamento ai cambiamenti climatici e sulla partecipazione dei cittadini. Si possono sperimentare forme di manutenzione costante, per esempio impiegando i cassintegrati insieme con gli agricoltori. Bisogna riconoscere – concludono i senatori del Pd – il valore strategico dell’agricoltura per la tutela del territorio e predisporre un piano straordinario di manutenzione diffusa del territorio e dei corsi d’acqua che coinvolga le autonomie locali e che avrebbe anche ricadute occupazionali’.

Segue testo mozione

Il Senato, premesso che: la tutela e la sicurezza del territorio italiano, unitamente alla tutela delle acque, rappresentano un interesse prioritario della collettività; il suolo è una risorsa ambientale non riproducibile, la cui trasformazione produce effetti permanenti su ambiente e paesaggio; la fragilità del territorio italiano è documentata e sempre più evidente: i dati forniti dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare sul finire della passata legislatura classificano il 10 per cento circa del territorio nazionale ad elevata criticità idrogeologica, ossia a rischio di alluvioni, frane e valanghe; i due terzi delle aree esposte a rischio riguardano i centri urbani, le infrastrutture e le aree produttive; più in generale, e con diversa intensità, il rischio di frane e alluvioni riguarda tutto il territorio nazionale: l’89 per cento dei comuni sono soggetti a rischio idrogeologico e 5,8 milioni di italiani vivono sotto tale minaccia; alla particolare conformazione geologica del territorio italiano, alla fragile e mutevole natura dei suoli che lo compongono ed all’acuirsi delle variazioni climatiche estreme, non è stata contrapposta una tutela specifica che garantisca dalla forte pressione antropica che si registra nel nostro Paese: l’Italia è, infatti, un Paese fortemente antropizzato, con una densità media pari a 189 abitanti per chilometro quadrato, assai superiore alla media europea, pari a 118 abitanti per chilometro quadrato, e con fortissime sperequazioni nella distribuzione territoriale; secondo i dati Istat, il trend del consumo di suolo nel nostro Paese è cresciuto a ritmi impressionanti, pari a 244.000 ettari all’anno di suolo divorato da cemento ed asfalto; si è assistito, negli ultimi decenni, ad una crescita continua dell’urbanizzazione, al diffondersi di una cementificazione spesso incontrollata, all’artificializzazione di corsi d’acqua, fiumare e canali e alla sottrazione di aree allagabili e di aree libere, agricole e boschive, che rappresentano presidi essenziali per la tenuta del territorio italiano, di cui si paga un prezzo altissimo ogni qualvolta, sul nostro Paese, si abbattono piogge particolarmente intense; l’assenza di un’adeguata pianificazione territoriale da parte degli stessi enti preposti alla gestione del territorio, ed il ricorso improprio agli oneri di urbanizzazione quale fonte prioritaria di finanziamento per i bilanci comunali, hanno spesso privato il « bene suolo » del suo valore pubblico, riducendolo ad un mero serbatoio da cui attingere risorse; la pratica dell’abusivismo, le continue deroghe alla normativa urbanistica e le ricorrenti politiche di condono edilizio, hanno minato la creazione di una cultura diffusa in materia di sicurezza del territorio, di rispetto delle regole e di salvaguardia del suolo come risorsa per le generazioni future; l’assenza di un’adeguata pianificazione territoriale, l’abbandono della cura dei boschi unita a una cementificazione incontrollata hanno prodotto una rilevante perdita di terreni per la produzione agricola che, insieme alla desertificazione legata all’improduttività dei suoli, sono fattori di rischio per gli equilibri ambientali; gli eventi alluvionali che hanno colpito anche in queste ultime settimane i territori dell’Emilia Romagna e della Liguria – e i dissesti dei territori appenninici che ne sono seguiti – , nonché quelli che hanno colpito ripetutamente nei mesi passati la Toscana, le Marche, il Veneto, la Campania, la Sicilia dimostrano quanto il problema del dissesto idrogeologico non sia più catalogabile nella logica dell’emergenza, sia a causa della frequenza degli eventi e che per la gravità delle ricadute prodotte sui sistemi territoriali coinvolti; ciò nonostante, nella gestione delle risorse pubbliche per la tutela dell’ambiente si evidenzia un deficit di pianificazione e programmazione con una spesa improduttiva e molte volte dirottata su altre finalità; uno studio dell’Associazione artigiani e piccole imprese Mestre (Cgia) ha indicato che solo l’1,1 per cento delle imposte «ecologiche» sull’energia, sui trasporti e sulle attività inquinanti, pagate dai cittadini allo Stato e agli enti locali, è destinato alla protezione dell’ambiente; il 98,9 per cento va a coprire altre voci di spesa; più in generale, occorre sottolineare come le politiche di gestione del territorio continuano a destinare la gran parte delle risorse disponibili, che restano comunque scarse, all’emergenza, anziché ad una effettiva opera di prevenzione e messa in sicurezza del territorio, che è invece l’unica soluzione in grado di prevenire danni economici e perdite di vite umane inaccettabili; ad esempio, a fronte di un finanziamento della legge n. 183 del 1989 per la difesa « strutturale » del suolo, pari a soli 2 miliardi di euro negli ultimi 20 anni, sono stati spesi ben 213 miliardi di euro per arginare le molteplici emergenze che si sono verificate: 161 miliardi di euro per coprire i danni provocati dai terremoti e 52 miliardi di euro per riparare i disastri derivanti dal dissesto idrogeologico. Tra il 1999 ed il 2008, inoltre, sono stati impiegati 58 miliardi di euro per la difesa del suolo, la riduzione dell’inquinamento e l’assetto idrogeologico, ma di questi oltre il 50 per cento è stato assorbito dalle spese di parte corrente e solo 26 miliardi di euro sono stati destinati ad investimenti per la prevenzione dei rischi; gli stanziamenti ordinari riguardanti la difesa del suolo e il rischio idrogeologico, iscritti nei bilanci di previsione degli ultimi anni, indicano pesanti riduzioni di risorse, facendo venir meno la certezza di poter disporre delle risorse necessarie a politiche di prevenzione, che hanno bisogno di continuità per poter essere efficaci e registrando, nei fatti, uno spostamento delle modalità di finanziamento che privilegia la gestione straordinaria, mediante strumenti che non sempre hanno prodotto risultati soddisfacenti; il piano straordinario per la prevenzione del rischio idrogeologico, previsto dalla legge n. 191 del 2009, (Legge finanziaria 2010), che aveva assegnato al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare fondi per 1 miliardo di euro per interventi straordinari, a valere sulle risorse del fondo per le aree sottoutilizzate, diretti a rimuovere le situazioni a più elevato rischio idrogeologico, non ha mai prodotto i risultati attesi. I suddetti fondi, destinati a finanziare gli accordi di programma sottoscritti con le regioni, che concorrevano con 954 milioni di euro a valere sulla quota regionale del fondo per le aree sottoutilizzate, per la realizzazione degli interventi prioritari di prevenzione, sono stati prima ridotti di oltre 200 milioni di euro per far fronte ai danni provocati da alcune calamità naturali e poi, di fatto, azzerati dai tagli di bilancio voluti, dal Governo Berlusconi e dall’allora Ministro dell’economia, Giulio Tremonti, e realizzati in particolar modo con il decreto legge n. 138 del 2011; la situazione determinatasi per effetto della mancata attuazione del piano straordinario contro il dissesto idrogeologico è risultata talmente grave da costringere il Governo Monti ad adottare tre apposite delibere del Cipe, la prima (n. 8 del 2012) allo scopo di individuare fra gli interventi di rilevanza strategica regionale quelli per la mitigazione del rischio idrogeologico individuati negli accordi di programma già sottoscritti fra il Ministero dell’ambiente e le regioni del Mezzogiorno, con conseguente assegnazione di complessivi 680 milioni di euro; la seconda (la n. 6 del 2012) per lo stanziamento di 130 milioni di euro, anch’essi per interventi diretti a fronteggiare i fenomeni di dissesto idrogeologico in alcune aree delle regioni del Centro-Nord; la terza (la n. 87 del 2012) per l’assegnazione di ulteriori 1.060 milioni di euro, a valere sulle risorse del Fondo per lo sviluppo e la coesione, per il finanziamento di interventi per la manutenzione straordinaria del territorio nelle regioni del Mezzogiorno; considerato che: in ogni caso, comunque, ancora prima dell’individuazione di nuove risorse economiche, è necessario mettere mano con decisione all’infrastrutturazione istituzionale nel campo delle politiche per la difesa del suolo. La maggiore criticità oggi riscontrabile è, infatti, dovuta al mancato completamento del riassetto del sistema di governance e da una frammentazione e sovrapposizione di competenze tra diversi soggetti e strumenti operativi, che appesantiscono, rendendo meno efficiente e a volte paralizzando, il sistema di pianificazione, programmazione, gestione e monitoraggio degli interventi; a livello nazionale si sconta, a tutt’oggi, la mancanza di una regia unitaria delle azioni di difesa del suolo e di gestione della risorsa idrica; l’adeguamento alle normative comunitarie – direttiva n. 2000/60/CE sulle acque e 2007/60/CE sulle alluvioni – avrebbe necessariamente richiesto la definizione di ruoli e competenze che sono ancora confuse tra livelli distrettuali e regionali, con l’effetto di non rendere riconoscibile la catena delle responsabilità; l’attuale revisione dei livelli istituzionali e la diversa attribuzione di funzioni in materia di pianificazione territoriale di scala vasta e di tutela delle risorse ambientali rischiano, peraltro, di creare nuove criticità; il sistema di gestione proposto per la difesa del suolo, la tutela delle acque e i servizi idrici è di tipo spiccatamente centralistico, incapace di coordinare sinergicamente competenze, ruoli, responsabilità e poteri decisionali delle istituzioni interessate e di armonizzare contenuti, modalità di approvazione, attuazione ed aggiornamento dei diversi strumenti di pianificazione; l’istituzione delle otto autorità di bacino distrettuali, non ancora operative, alle quali viene attribuita la potestà pianificatoria, trova limiti nella stessa delimitazione territoriale dei distretti approvata nella loro architettura istituzionale: un eccessivo peso ministeriale, un conflitto latente con il sistema delle regioni, deleterio per gli organismi che dovrebbero fondarsi sul principio cooperativo tra Stato e regioni a fronte di competenze concorrenti in materia territoriale, nonché una scarsa operatività economica di tali organismi, a causa delle crescenti difficoltà finanziarie del settore pubblico; i piani di gestione dei distretti idrografici e i relativi programmi di azione, da predisporre per il raggiungimento degli obiettivi della direttiva sulle acque n. 2000/60/CE entro il termine di nove anni dalla sua entrata in vigore, sono stati adottati dai comitati istituzionali delle autorità di bacino, ma sono tuttora in attesa di definitiva approvazione da parte del Consiglio dei Ministri: ad oggi il Governo ha approvato solo due schemi di D.P.C.M. recanti approvazione di piani di gestione distrettuali, quello del distretto idrografico padano e quello del distretto pilota del fiume Serchio, con il risultato di aver prodotto fin qui solo effetti limitativi per i territori interessati, senza aver invece dispiegato le azioni positive in essi previste; a livello europeo, oltre alla direttiva quadro sulle acque n. 2000/60/CE, solo parzialmente attuata con il decreto legislativo n. 152 del 2006 (Codice ambientale), sono stati approvati altri importanti atti legislativi in materia di gestione delle acque e di difesa del suolo, solo parzialmente assunti e recepiti dal nostro Paese, tra cui la direttiva sulle alluvioni n. 2007/60/CE, recepita con il decreto legislativo n. 49 del 2010 che, però, mal si integra con il citato Codice ambientale; tratto fondante del progetto comunitario, a cui dovrebbe ispirarsi l’azione del nostro Paese in materia di difesa del suolo, è il perseguimento di un’azione programmatica non limitata al semplice bilanciamento delle esigenze di sicurezza, di quelle ecologiche ed economiche, ma finalizzata all’obiettivo di un cambiamento del modello di sviluppo, attraverso scelte di destinazione ed uso del territorio. Punti caratterizzanti di tale programma sono la ricostruzione ecologica dei corsi d’acqua, lo sfruttamento dei processi di qualificazione dell’agricoltura come cura e presidio del territorio, l’introduzione dell’analisi economica nei processi decisionali, al fine di realizzare gli interventi che portano maggior beneficio alla collettività piuttosto che favorire la redditività immediata del singolo; l’assunzione, nel quadro degli scenari di cambiamento, anche dei cambiamenti climatici, la promozione di politiche di adattamento piuttosto che il ricorso ad interventi strutturali, la valorizzazione di pratiche di tipo «negoziale-dialogico» e di partecipazione e coinvolgimento del pubblico nella ricerca di scelte condivise; la maggior parte degli interventi finalizzati alla difesa del suolo realizzati in Italia, sono interventi strutturali di difesa passiva, nonostante sia ormai dimostrato che il binomio «dissesto-intervento di difesa del dissesto» può dar luogo a soluzioni localmente soddisfacenti, ma se applicato diffusamente può provocare effetti negativi, non solo perché spesso il rapporto costo/efficacia è sfavorevole, ma anche perché la realizzazione di un intervento a monte può aggravare i pericoli a valle. Al contrario, occorre puntare sulle attività di carattere preventivo, che pongano l’enfasi sul valore delle regole di uso del suolo, sul monitoraggio delle situazioni di rischio e sul grado di conoscenza e consapevolezza delle popolazioni del livello di esposizione al rischio di un territorio, senza dimenticare l’importanza e la necessità di attivare programmi di adeguata manutenzione degli alvei fluviali, con particolare riferimento all’assetto vegetazionale, che tenga conto anche di un corretto equilibrio ecologico degli stessi; in particolare, la strategia classica di difesa dalle inondazioni, che si è basata fino ad ora sulla quasi esclusiva costruzione di opere (argini, difese spondali, briglie, casse di espansione, ecc.), non sta fornendo le risposte adeguate alle aspettative dei territori, come dimostrano i sempre più frequenti disastri che stanno colpendo il territorio italiano. Un sistema di difesa dalle alluvioni basato prevalentemente sulle opere e sugli argini e sul concetto di “messa in sicurezza” – intesa idealmente dai più come sicurezza assoluta contro ogni evento ma in realtà mai raggiungibile – è inoltre intrinsecamente fragile: può essere soggetto a cedimenti o può essere messo in crisi da eventi piovosi maggiori di quelli di progetto, seppur molto rari, e necessita quindi di essere aggiornato e affiancato da una strategia di difesa meno dipendente dalle opere. E’ quindi auspicabile che una moderna strategia di difesa del territorio dalle inondazioni minimizzi il ricorso alle opere, limitandole a quelle realmente irrinunciabili, e si indirizzi verso un approccio più in sintonia con i processi naturali, puntando ad una sinergia tra obiettivi di riqualificazione dell’ecosistema fluviale e di diminuzione del rischio idraulico e del dissesto idrogeologico; considerato inoltre che: da almeno vent’anni in diversi Paesi europei si sono iniziati a riconoscere i limiti di un approccio alla gestione puramente “infrastrutturale” del rischio idraulico e idromorfologico. Di conseguenza hanno preso piede le prime esperienze fondate sul concetto di “restituire spazio al fiume” e, ove e quando compatibile con il contesto territoriale, di assecondarne le dinamiche morfologiche, lasciando la possibilità ai corsi d’acqua di allagare o erodere dove questo possa avvenire senza minacciare vite umane o beni di interesse rilevante. In tal senso sia in Europa che nel mondo sono già numerosi gli esempi di successo di politiche di gestione del territorio e dei corsi d’acqua incentrate sulla sinergia tra i due obiettivi di diminuire il rischio e migliorare l’ecosistema fluviale. Le principali azioni di questa nuova strategia europea comprendono: riqualificare i corridoi fluviali, recuperare e riconnettere le aree allagabili e riattivare la mobilità dei fiumi, delocalizzare edifici e infrastrutture a rischio, arrestare il consumo di suolo e attrezzare le aree urbanizzate contro le piogge intense; anche la gestione delle sempre più frequenti emergenze dovute al dissesto idrogeologico, in capo nel nostro Paese ad un sistema di protezione civile tra i più qualificati al mondo, ha dovuto misurarsi negli ultimi anni con crescenti difficoltà, in primo luogo a seguito dell’emanazione da parte del Governo Berlusconi del decreto-legge n. 225 del 2010, che aveva introdotto, a carico delle regioni, l’obbligo di attingere a risorse proprie, mediante l’apposizione di addizionali fiscali regionali e l’aumento dell’accisa sulla benzina per i cittadini e le imprese già colpite da eventi calamitosi, per far fronte a situazioni per le quali il Governo avesse dichiarato lo stato di emergenza, con la conseguenza di aggravare una situazione già particolarmente difficile e di paralizzare, a causa dei ricorsi avanzati da alcune regioni davanti alla Corte costituzionale, la tempestività degli interventi diretti a fronteggiare le ricorrenti emergenze; la dichiarazione di illegittimità costituzionale della citata normativa da parte della Corte costituzionale con la sentenza n. 22 del 2012, e la conseguente adozione da parte del Governo Monti delle misure del decreto legge n. 59 del 2012 in materia di protezione civile, non hanno fugato tutti i dubbi degli amministratori locali in ordine al fatto che in caso di calamità naturali gli eventuali interventi di protezione civile messi in atto da organismi statali, in particolare quelli approntati dalle forze armate, non siano posti a carico degli enti territoriali rappresentanti delle popolazioni colpite dalle medesime calamità naturali. Ad aumentare le incertezze e le preoccupazioni degli amministratori locali e a minare l’efficace svolgimento delle attività di protezione civile hanno contribuito negativamente – altra triste eredità della passata legislatura e del Governo Berlusconi – il sostanziale azzeramento del fondo regionale di protezione civile istituito dalla legge finanziaria per il 2001 e così utile in passato a garantire il funzionamento del sistema regionale di protezione civile e la copertura dei danni causati da eventi di pertinenza regionale, nonché il dimezzamento del fondo nazionale per la protezione civile; rilevato che: in Italia il mercato assicurativo offre la garanzia per rischi da catastrofi naturali come estensione della garanzia base incendio, ma tale offerta è più diffusa nelle polizze alle imprese e più rara per i privati; occorrerebbe promuovere la diffusione di una moderna cultura che tenga conto del rischio da catastrofi naturali e dei suoi drammatici effetti e costi umani, sociali ed economici, e in tale ottica è da ritenere indispensabile un incisivo intervento dello Stato che affianchi e renda più conveniente e sostenibile per i cittadini i costi di un sistema di copertura assicurativa volontaria degli edifici; andrebbero pertanto incoraggiate forme di trasferimento dei rischi catastrofali sul modello di quanto accade in altri Paesi, quale la Francia, dove vige un regime assicurativo semi-obbligatorio che vede lo Stato nel ruolo di riassicuratore di ultima istanza; è quanto mai necessario richiamare ad un nuovo e più incisivo impegno il Parlamento e il Governo, anche alla luce dei deludenti risultati registrati in questi anni e della necessità di individuare soluzioni tempestive ed avanzate per fronteggiare il ripetersi di episodi calamitosi ed emergenziali, sempre più gravi e difficilmente risolvibili esclusivamente con interventi ex post, sempre più costosi e sostanzialmente inefficaci; un piano di riduzione e gestione del rischio idrogeologico del territorio e dei corsi d’acqua rappresenta uno straordinario strumento di rilancio economico e di creazione di occupazione, a partire dalla riattivazione degli investimenti immediatamente cantierabili da parte degli enti locali e quindi da una revisione delle regole del patto di stabilità interno che oggi impediscono la realizzazione di interventi fondamentali sul fronte della prevenzione; specificatamente per i corsi d’acqua, la predisposizione di una strategia nazionale per la riqualificazione dei fiumi e del territorio finalizzata alla gestione delle alluvioni e del dissesto idrogeologico; si tratta di un elemento qualificante della “Green Economy”, se impostato in modo in modo da superare l’approccio dell’intervento “una tantum” e della sola “risposta all’emergenza” sulla scia della reazione al singolo evento; esso deve essere fondato sui principi della riqualificazione fluviale e sui concetti di non occupazione o ripristino delle aree destinate all’espansione naturale dei corsi d’acqua, di minimizzazione del rischio e di misure di adattamento al rischio residuo e non sulla costruzione di opere in modo diffuso; occorre evitare l’ulteriore esposizione di beni al rischio, tramite una regolamentazione più attenta delle aree a pericolosità elevata, a partire dalle nuove urbanizzazioni, nonché evitare in condizioni di somma urgenza il prolificare di interventi dettati principalmente dalla emotività del momento, che se non correttamente programmati a scala di bacino possono costituire una seria minaccia di perdita di biodiversità; impegna il Governo: a contrastare ogni iniziativa di indebolimento della pianificazione territoriale e di ricorso a nuovi condoni edilizi, salvaguardando la centralità della pianificazione territoriale integrata di scala vasta anche nelle scelte in itinere di ridefinizione dei livelli istituzionali esistenti, privilegiando la logica della prevenzione rispetto a quella di gestione dell’emergenza, anche nell’allocazione delle risorse economiche che devono essere rese stabili, utilizzabili in tempi certi e ricondotte ad una gestione ordinaria delle procedure, in primo luogo salvaguardando e sbloccando le risorse previste dagli accordi di programma già sottoscritti con le regioni per gli interventi prioritari di prevenzione dal rischio idrogeologico; ad adottare politiche, che, contrastando il fenomeno dell’abbandono dei terreni, del disboscamento e, quindi dell’improduttività del terreno stesso, riconoscano il valore strategico dell’agricoltura come presidio e strumento di manutenzione ordinaria del territorio; a valorizzare il ruolo del mondo agricolo, detentore degli ultimi spazi non urbanizzati e quindi ancora realisticamente aperti a usi integrati, per attuare una gestione integrata dei corsi d’acqua volta alla salvaguardia dalle alluvioni e al contemporaneo miglioramento ecologico dei fiumi, e a individuare adeguati strumenti finanziari per compensare i servizi ambientali forniti dagli agricoltori; a dare piena attuazione, nell’ambito della propria competenza, ai principi e ai contenuti delle direttive europee in materia di gestione delle risorse idriche e di alluvioni, assumendo le opportune iniziative di natura amministrativa e normativa che possano portare ad una significativa riorganizzazione del sistema di responsabilità e competenze, che elimini sovrapposizioni ed incongruenze del quadro esistente, puntando ad una maggiore cooperazione tra i livelli amministrativi ed il sistema delle competenze tecniche esterne, ad un effettivo coordinamento tra politiche settoriali e territoriali, nonché ad una reale attuazione dei requisiti di partecipazione pubblica attiva e di informazione/educazione al rischio, anche mediante la valorizzazione di esperienze virtuose di programmazione negoziata territoriale, come i contratti di fiume; a predisporre una strategia nazionale per la riqualificazione ecologica dei fiumi finalizzata alla gestione delle alluvioni e del dissesto idrogeologico; ad individuare un meccanismo finanziario in grado di generare risorse certe ogni anno, per finanziare interventi integrati di riqualificazione fluviale, garantendo in particolare ai piani di distretto così indirizzati una disponibilità finanziaria sicura, che permetta di programmare la spesa e avviare il lungo processo di ”adattamento” del territorio italiano verso condizioni di maggior naturalità e maggior sicurezza; ad individuare azioni pilota di gestione di piani di manutenzione degli alvei fluviali, con particolare riferimento alla conservazione di un corretto assetto vegetazionale, tali da ridurre i costi necessari per la loro esecuzione anche attraverso l’individuazione di una filiera bosco alluvionale – legno – energia; a definire canali preferenziali di finanziamento per gli interventi integrati con valenze idrauliche e ambientali sui fiumi, che puntano contemporaneamente a ridurre il rischio di alluvioni e a migliorare lo stato ambientale dei corsi d’acqua; ad adottare iniziative normative, per quanto di propria competenza, volte ad apportare le modifiche al quadro normativo vigente nella logica unitaria della difesa idrogeologica, della gestione integrata dell’acqua e del governo delle risorse idriche, al fine di rendere finalmente operative le autorità di bacino distrettuali, secondo una governance che tenga conto delle esigenze di riequilibrio istituzionale sostenute dalle regioni, di una delimitazione più funzionale dei distretti e di un sistema di governo in grado di riconoscere e valorizzare il patrimonio di conoscenze ed esperienze delle strutture tecniche di bacino esistenti a livello regionale e locale, nonché a portare a definitiva e rapida approvazione tutti i piani di gestione dei distretti idrografici e i relativi programmi di azione, ai fini del raggiungimento degli obiettivi previsti della direttiva sulle acque n. 2000/60/CE; ad assumere iniziative volte a promuovere, nell’ambito della revisione delle regole del patto di stabilità interno, un piano straordinario di manutenzione diffusa del territorio e dei corsi d’acqua, che coinvolga il sistema delle autonomie locali e che rechi forme di incentivazione della partecipazione attiva della popolazione (come ad esempio i contratti di fiume) anche mediante la sperimentazione di progetti che coinvolgano lavoratori temporaneamente beneficiari di ammortizzatori sociali; a promuovere, per quanto di propria competenza, le opportune modifiche normative che garantiscano la possibilità del sistema della protezione civile di operare in modo tempestivo ed efficace nel campo del contrasto ai danni provocati dal dissesto idrogeologico, anche mediante la revisione delle criticità eventualmente riscontrate in sede di applicazione della nuova normativa prevista dal decreto-legge n. 59 del 2012; a valutare l’opportunità di introdurre forme di assicurazione da rischi naturali che vedano comunque il coinvolgimento obbligatorio dello Stato anche solo nel ruolo di riassicuratore di ultima istanza.

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