«Quando il presidente Mattarella dice che sul terrorismo italiano ci sono “ombre, spazi oscuri, complicità non pienamente chiarite” esprime uno stato d’animo condiviso da moltissimi italiani. E allora è necessario domandarsi: dove dobbiamo guardare per arrivare a una verità più completa, che integri le acquisizioni giudiziarie e parlamentari?». Senatore del Partito Democratico, testimone di un pezzo importante della storia repubblicana, Luigi Zanda è stato portavoce e assistente politico di Francesco Cossiga tra il 1976 e l’80, prima al ministero dell’Interno poi alla presidenza del Consiglio. Nella stagione più cruenta delle Brigate Rosse e del sequestro Moro ha seguito la violenza terrorista da un osservatorio privilegiato. E ora interviene nel dibattito sul terrorismo scaturito dall’intervista di Maurizio Molinari al presidente Sergio Mattarella dopo l’arresto dei brigatisti latitanti a Parigi.
Senatore Zanda, secondo lei dove bisogna cercare le verità che ancora non conosciamo?
«Sono convinto che i grandi delitti politici di quegli anni abbiano a che fare con le gravi tensioni internazionali della guerra fredda. La verità completa potrebbe arrivare dall’apertura degli archivi delle diverse potenze che allora si occupavano del terrorismo internazionale. Stati Uniti e Unione Sovietica, certo. Ma anche Germania, Francia, Inghilterra, Israele».
Quando parla di grandi delitti politici, oltre a Moro a chi si riferisce?
«Non riesco a non collegare il sequestro e l’omicidio di Moro a due gravissimi attentati che, pur senza esiti mortali, erano stati progettati per uccidere. Penso ai colpi di pistola sparati contro papa Wojtyla, il 13 maggio del 1981, e all’attentato a Enrico Berlinguer in Bulgaria, il 3 ottobre del 1973: andava in macchina verso l’aeroporto quando all’improvviso sbucò sulla strada un camion carico di pietre. Solo per un caso il leader comunista si salvò: l’autista al suo fianco perse la vita.
Allo stesso modo, solo per pochi millimetri una pallottola non avrebbe bucato l’aorta di Wojtyla. È evidente il tratto comune ai due attentati: una casualità imprevedibile che ha evitato la morte delle due vittime, la determinazione omicida dei responsabili e il collegamento con la Bulgaria».
Secondo lei c’è una sola mano dietro la morte di Moro e gli attentati a Berlinguer e Wojtyla?
«Una mano forse no, ma vedo un disegno di destabilizzazione che li unisce. I tre delitti avevano come bersaglio tre personalità che in modi molto diversi stavano comunicando al mondo un pensiero nuovo e dirompente rispetto a schemi consolidati, raccogliendo un desiderio molto forte di maggior democrazia per grandi masse popolari. E in questo modo urtavano gli equilibri della guerra fredda.
Moro apriva ai comunisti in un paese della Nato. Berlinguer rompeva l’internazionalismo comunista, privilegiando la democrazia rispetto al comunismo realizzato. E papa Wojtyla stava minando la struttura dell’impero sovietico».
Quindi lei fa un ragionamento geopolitico: tutti e tre erano mine vaganti rispetto all’ordine disegnato dalla guerra fredda.
«Sì, ma a questo aggiungerei un altro elemento comune: sono tre delitti di grande criminalità politica, difficilmente attribuibili solo a singoli attentatori o a gruppi estremisti. Sembrano più riconducibili a un gigantesco disegno di caratura internazionale».
Lei si è fatto un’idea di questo disegno?
«Naturalmente la mia è solo un’ipotesi. Ma intuitivamente, sulla base dei fatti noti, la bilancia pende dalla parte dell’Unione Sovietica di cui era nota la spinta a destabilizzare l’Europa occidentale. Forse non è un caso che la Bulgaria, longa manus esecutiva dell’Urss, compaia ripetutamente anche nelle indagini sull’attentato al Papa. E per quel che riguarda il sequestro di Moro, richiami fattuali all’Urss e ai paesi satelliti ricorrono nella relazione finale dell’ultima commissione di inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni. Le Br facevano parte di un network che includeva la Raf tedesca, l’Ira irlandese, i terroristi palestinesi e probabilmente una parte degli indipendentisti baschi: questi movimenti erano in qualche modo vicini all’Urss. E da questa rete arrivava il rifornimento delle armi».
Lei in questo modo esclude la pista della Cia che è riaffiorata di recente insieme alla rievocazione dell’incontro tra Moro e Henry Kissinger nel 1974 negli Usa: il leader democristiano ne uscì sconvolto. E la moglie Eleonora avrebbe riferito d’una minaccia del Segretario di Stato in caso di apertura ai comunisti.
«Gli Stati Uniti avevano interesse a scoraggiare i rapporti con il Pci, di cui temevano il legame con Mosca. Ma non a destabilizzare l’Italia con un delitto di quella portata. E poi per gli Usa mancano quei collegamenti materiali che sono evidenti con l’Urss».
Nei cinquantacinque giorni delle indagini su Moro, Cossiga ministro degli Interni chiamò a collaborare consulenti americani tra cui Steve Pieczenik, che disse la famosa frase: “Fino alla fine ho avuto paura che liberassero Moro”.
«Non mi sembra verosimile che Pieczenik fosse al servizio di un piano criminale della Cia e poi abbia avuto l’ingenuità di rivelarlo pubblicamente. Durante il sequestro Moro, l’Italia chiese aiuto a tutte le potenze alleate. Ma di aiuto concreto a mia memoria ce ne fu poco. Mi sono anche domandato il perché, dal momento che l’Italia era un paese sotto osservazione. Probabilmente perché il terrorismo italiano di quegli anni era una realtà così magmatica da rendere rischioso occuparsene».
Tra le zone d’ombra del sequestro Moro resta quel comitato di difesa messo in piedi da Cossiga e composto per larga maggioranza da uomini di Licio Gelli. Lei come lo spiega?
«Non so dare una spiegazione. Era un comitato di assoluta inutilità, una superfetazione immaginata da Cossiga. Tutta la gestione del caso Moro venne fatta con la presenza stabile al Viminale del procuratore della Repubblica. E i vertici dei servizi segreti erano stati appena rinnovati dal Governo con il consenso di Aldo Moro e del comunista Ugo Pecchioli: erano scelte che allora si facevano insieme».
Nella fase investigativa furono fatti molti errori, tanto da lasciar supporre che in realtà non si volesse trovare il prigioniero.
«Non certo errori voluti per arrivare alla morte di Moro. Credo che, fin dal momento del sequestro, le Br avessero già deciso di ucciderlo. E questo risulta abbastanza evidente dalla scelta fatta dai terroristi di rendere pubblica la prima lettera di Moro, destinata proprio a Cossiga: la missiva era stata tenuta segreta anche su richiesta di Moro, il quale sapeva che solo nella segretezza si sarebbe potuta svolgere una vera trattativa. Dopo 4 o 5 giorni le Br pubblicarono la lettera, troncando di fatto sul nascere qualsiasi possibilità di trattare».
Lei cosa ricorda di quel 16 marzo del 1978?
«Appresi la notizia dell’attentato, ancora molto confusa, appena varcata la soglia del Viminale. Dopo un paio d’ore, verso le 11, mi mandò a chiamare Cossiga, che era già stato in via Fani e dal presidente del Consiglio. “Da questo momento dimenticati della mia vita politica, perché politicamente sono finito”.
Poi mi avrebbe affidato un documento da conservare in cassaforte. Era la lettera di dimissioni da ministro dell’Interno, ma su alcuni fogli a parte ne variò l’incipit: nel caso in cui Moro fosse stato ucciso, liberato, liberato ma ferito nello scontro finale».
Lei come intese il gesto?
«Cossiga voleva dimettersi subito, ma capiva di non poterlo fare. Così scrisse la bozza di una lettera che lo impegnava a farlo dopo».
Negli anni successivi lei non ha mai avuti dubbi sul comportamento di Cossiga in quei mesi?
«Può aver fatto errori, ma ha fatto tutto quel che poteva per liberare Moro. Sono testimone più di chiunque altro dei rapporti molto amichevoli, quasi affettuosi, che Cossiga intratteneva con Moro: più volte alla settimana la sera lo accompagnavo nello studio di via Savoia. Moro ne aveva colto perfettamente l’intelligenza e persino la suggestionabilità, come emerge anche dalle lettere scritte sotto sequestro: se oggi Cossiga fosse con me, mi darebbe ragione — scriveva Moro — ma siccome è con Berlinguer, dà ragione a lui».
Come spiega il deragliamento successivo, le esternazioni del picconatore?
«Con il bipolarismo violento di cui soffriva».
Avete avuto modo di riparlare della vicenda Moro?
«No. Lui era stato tra i sostenitori più convinti della linea della fermezza, ma non sono sicuro che nella parte finale della sua vita lo fosse ancora. Era preso dal rimorso di essere stato il responsabile della morte di Moro, lo tormentava l’idea che si sarebbe potuto salvare».
Lei prima accennava a una mano superiore che potrebbe aver guidato l’assassinio del presidente della Dc e gli attentati al Papa e a Berlinguer. Nel caso di Moro, non pensa che vi siano ombre anche in apparati dello Stato complici?
«Guardi, sugli apparati si possono fare ipotesi, ovviamente da provare.
Ma non illudiamoci di poter sciogliere i nodi interni se non indaghiamo su chi può aver ispirato quei delitti. Né il lungo lavoro dei giudici né le tante inchieste parlamentari sono riuscite a chiarire le “zone oscure” che ancora restano.
E dubito che a distanza di oltre quarant’anni qualcuno possa improvvisamente raccontare fatti nuovi. Né mi aspetto molto dalle testimonianze degli ex brigatisti latitanti ora catturati a Parigi. L’unica direzione in cui cercherei è quella degli archivi internazionali: solo là possiamo sperare di far luce sulle ombre che ci inquietano».