All`articolo 1 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, si legge: «Il termine ‘tortura’ indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti a una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito». A leggerla lentamente, parola dopo parola, si rivela come una definizione esemplare per il suo nitore letterario e giuridico. E in quel riferimento alle ‘sofferenze mentali’ si ritrova l`eredità tragica e consapevole, crudele e meditata di due eventi che hanno segnato in profondità il `900. Ovvero le macchine concentrazionarie dei lager e dei gulag e i regimi dispotici che le hanno realizzate; e lo sviluppo delle discipline della psiche e delle scienze umane, utilizzate – nei lager e nei gulag grandi, medi e piccoli – in senso anti-umano.
Di tutto ciò, di questa significativa cornice giuridica e storica, il disegno di legge approvato la settimana scorsa alla Camera conserva ben poco. È stato cancellato, infatti, il riferimento allo stato di privazione della libertà e alla condizione di minorata difesa che, nel testo originale, costituivano il necessario corollario della scelta di qualificare la tortura come un reato proprio: un reato, cioè, imputabile ai pubblici ufficiali e a chi eserciti pubbliche funzioni, e che derivi da un abuso di potere ai danni delle persone sotto custodia. Già il Senato, all`opposto, aveva finito con il qualificare la tortura come reato comune, attribuibile a ‘chiunque’ abbia in affidamento, cura o custodia la vittima.
A ciò si aggiunga il fatto che è stato introdotto il dolo specifico (la tortura finalizzata a «ottenere informazioni o dichiarazioni o infliggere una punizione o vincere una resistenza, ovvero in ragione dell`appartenenza etnica, dell`orientamento sessuale o delle opinioni politiche o religiose»). E questo fa temere che resti fuori proprio la forma peggiore di tortura: quella, cioè, dovuta a mero sadismo e a violenza non solo del tutto priva di giustificazione, ma anche di qualsivoglia – seppur deteriore – motivazione. Infine, una serie di ulteriori elementi e condizioni rischiano di rendere di difficile applicazione la legge. Detto tutto ciò, ritengo in ogni caso che quella normativa vada approvata: perché tra non avere una legge – trentun anni dopo che l`Assemblea generale dell`Onu ha approvato la Convenzione e ventisette anni dopo la ratifica da parte dell`Italia – e averne una mediocre, preferisco questa seconda opzione. Scelgo, in altre parole, il male minore. Il motto ‘il meglio è nemico del bene’ nasconde, spesso, ipocrisie e insidie, ma in questo caso ha una sua incontestabile ragionevolezza. Se il testo approvato la scorsa settimana venisse modificato dal Senato, dovrebbe tornare ancora alla Camera. Ciò potrebbe determinare un esito rovinoso: il rinvio alla prossima legislatura o, nella migliore delle ipotesi, un differimento di almeno due, tre anni. Possiamo permettercelo?

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