La seconda ondata di Covid sta mettendo in ginocchio le democrazie occidentali, dagli Usa alla Francia, dalla Germania all’Italia. Ci siamo fatti trovare impreparati in una società dove l’individuo viene sempre prima della collettività. Dove i bisogni dell’io sono superiori sempre a qualsiasi idea, anche embrionale di un noi; dove appare complesso difendere il bene comune e comprendere un dato di realtà che la pandemia rende ineluttabile e cioé che ci si salva tutti insieme.

Purtroppo, nel nostro Paese, come in altre democrazie occidentali, questa disciplina del noi (che non è mai stata culturalmente dominante) è venuta meno anche a causa di un clima di sfiducia e paura che rende facile pensare che ce la possa fare solo il più forte e che non vale la pena lottare. La rabbia sociale nei confronti di quelli che vengono definiti “garantiti”, delle istituzioni incapaci di gestire il virus senza restringere il campo delle libertà, della scienza spesso negata.

Una sensazione diffusa nella popolazione è che i governi non abbiano saputo proteggere i cittadini, non solo nella tutela della salute e del proprio reddito, ma anche nell’esercizio di ogni singola libertà che non può essere compressa da nessun fenomeno esterno (anche se ha le proporzioni di un evento storico imprevedibile, violento e letale). La pandemia non può ridurre la mia individualità, non può comprimere nessun diritto e se anche produce morte e dolore si tratta, nella maggior parte dei casi, di persone fragili e anziane che andrebbero isolate perché la vita, la corsa ai consumi e alla produzione possa continuare come se nulla fosse. Questa è la lettura che si fa strada e aumenta nella popolazione, dimostrando l’incapacità di farsi comunità, corpo unico e solido contro la tempesta, avamposto collettivo a difesa della salute e della democrazia. Una lettura scorretta anche perché non tiene conto, non solo della impossiblità di isolare le persone considerate fragili molte delle quali, anziane, vivono in contesti familiari e con le loro pensioni integrano i redditi delle famiglie, ma anche del fatto che ogni virus cerca dove attecchire, l’età media si abbassa e la malattia non risparmia corpi giovani e sani.

Per queste ragioni, oggi non si discute animatamente solo di ricevere il giusto, cogruo, indispensabile e immediato ristoro per chi sta perdendo fatturato e non riesce resistere ai colpi inferti dalla crisi. Oggi si pretende che lo Stato consenta di vivere esattamente come se nulla fosse successo o stesse accadendo; nonostante lo tsunami di cambiamenti che ci sta travolgendo nostro malgrado. Proteggerci dalla morte, dalla malattia, dalla povertà, mantenendo invariato il nostro stile di vita. Ma convivere con il virus non significa questo e implica dei necessari sacrifici che afferiscono proprio alla sfera del sapersi fare collettività, dell’avere cura di noi stessi per avere cura dell’altro da sé. Lo Stato oggi non può garantire la vita che si svolgeva ante virus e, dunque, è necessario che i cittadini e le istituzioni stringano un nuovo patto che indichi anche una strada alternativa e futura per il giorno in cui questo incubo finirà. E deve essere chiaro ai governi che, per realizzare questo patto, i cittadini devono essere trattati come adulti responsabili e non come un bacino di voti o un’opinione pubblica che non può essere disturbata, contraddetta o allarmata. Perché questo momento passerà ma spetterà alle istituzioni e ai singoli cittadini determinare il reale impatto che avrà avuto su tutto il genere umano. La misura della nostra salvezza starà nella capacità dei governi di fare scelte anche impopolari ma rapide ed efficaci, dando ristoro alle categorie colpite, e dei cittadini di rinunciare a un po’ della loro vita, mostrando capacità di resilienza e di sacrificio.

Non è una banalità dire che potremmo uscirne migliori o peggiori perché sta esattamente in questo passaggio la cifra del dramma che stiamo vivendo e che va bene al di là della capacità dei sistemi economici di riprendersi e cominciare a riprodurre ricchezza. Sulla protezione dell’altro, del più debole, del più fragile si misura oggi, più che mai, l’umanità delle nostre società.

Dobbiamo contribuire a rendere meno doloroso questo momento in cui la rabbia, la paura, la frustrazione l’inquietudine rischiano di generare una spirale di collera e disumanità tale da disintegrare il tessuto sociale e delle relazioni. Un terreno su cui possono proliferare forze eversive che mirano a creare caos e violenza, mettendo a rischio la tenuta delle istituzioni democratiche. Serve disponibilità, ascolto, solidarietà. Ma soprattutto responsabilità. Il governo deve mettere i cittadini nelle condizioni di praticare l’umanità della relazione, dando i ristori per vivere che sono precondizione, necessaria, della capacità di rinunciare e farsi resilienti. Ma sta anche a tutti noi dare una mano, mettendo da parte l’io per sostenere la battaglia del noi. Perché questa sfida epocale si potrà vincere solo se saremo tutti insieme a sostenerci nella solidarietà civica e umana.


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