Qualche riflessione sul 41 bis, ovvero sulle conseguenze della ‘amoralità’ della pena
Che cosa è la privazione della libertà quando sia prevista dall`ordinamento di uno stato democratico e quando la sua applicazione risponda a criteri di legalità? E` un dilemma di ordine giuridico e morale che non può essere ignorato, pur se ormai da tempo la riflessione sul significato della pena sembra scomparsa dal dibattito pubblico. Dietro tale rimozione, c`è l`idea che la sanzione penale risponda solo a una domanda di risarcimento sociale, come punizione del colpevole per il male provocato dalla sua azione illecita: e ciò anche quando se ne motivi l`utilizzo con argomenti tutti incentrati su finalità di prevenzione e di difesa della collettività. Si sfugge così alla domanda più radicale: qual è il senso morale della pena? Veniva da chiederselo sabato scorso quando, insieme a Miguel Gotor, ho visitato il reparto del carcere di Cuneo dove sono reclusi i detenuti sottoposti a regime di 41 bis. Il presupposto da cui muovo è che quelle persone siano responsabili dei reati loro attribuiti; e che il loro profilo criminale motivi il regime particolare al quale sono sottoposte. Se così è, ci si deve chiedere comunque in cosa debba consistere quel regime e quanto esso debba durare. Un detenuto dal nome spaventosamente evocativo ha sollevato una questione essenziale e inesorabile, così riassumibile: perché non posso toccare la mano di mia figlia? I colloqui con i familiari un`ora al mese – avvengono, infatti, in uno spazio ristrettissimo diviso da un vetro e il detenuto e i familiari parlano attraverso un microfono. Dal momento che i colloqui sono interamente videoregistrati, la negazione di qualunque forma di contatto fisico (a esclusione di quello con un figlio minore di dodici anni) non sembra rispondere ad alcuna ragione di sicurezza. Se, infatti, i1 41 bis si giustifica come strumento straordinario e temporaneo di prevenzione intra-muraria e non come pena di specie diversa (la pena dei mafiosi), una misura quale il divieto del contatto fisico sembra finalizzata esclusivamente ad aggiungere all`effetto primario della pena ulteriori effetti massimamente afflittivi. Qui siamo già su un terreno assai scivoloso, dal momento che la misura in questione non è in alcun modo prevista dal nostro ordinamento ed è il risultato di decisioni amministrative non giustificabili in alcun modo e, di conseguenza, arbitrarie. Perché mai, infatti, la negazione del contatto fisico e non, che so, il divieto dì ricevere posta odi comunicare con altri detenuti o il lavoro forzato? Se una misura non risponde a un requisito di razionalità e a una esigenza di prevenzione, chi decide l`entità dell`afflizio- ne? Un confine insuperabile potrebbe essere quello rappresentato dall`incolumità fisica e dall`integrità del corpo del recluso, che non deve subire danni dai provvedimenti imposti dal regime speciale. Ma anche questo è un discrimine labile: per persone affette da gravi patologie, la sola permanenza in quello stato può produrre danni irreversibili. E, poi, c`è la sfera altrettanto vulnerabile, e non meno concretamente danneggiabile, dell`identità psicologica: è qui che intervengono gli effetti nocivi di quella forma di privazione sensoriale che è, ad esempio, la negazione del contatto fisico. Le conseguenze sulla personalità del recluso possono essere davvero profonde. Come motivare tutto questo? Se non è una ragione che rimanda a esigenze di sicurezza, quel trattamento può spiegarsi solo come incentivo alla collaborazione con l`autorità giudiziaria; oppure come meccanismo ‘retributivo’ per il male commesso. Sofferenza in cambio di sofferenza (e che cos`è il divieto di stringere la mano della figlia rispetto all`uccisione di un bambino?). In questo secondo caso, che pure risponde a una logica ferrea, la pena perde qualunque valore morale – ovvero qualunque capacità di emancipazione dal male – e si riduce alla dimensione primaria della rivalsa e della vendetta. Ecco: la moralità della pena può consistere nella liberazione dallo stato di iniquità che il reato ha prodotto: e ciò non può avvenire attraverso un nuovo stato di iniquità (un trattamento disumano). Quando ciò accade, la pena anche se legale corrisponde a una sorta di rappresaglia in quanto riproduce il male che si intenderebbe sanzionare, e lo allarga e lo moltiplica. E così quella pena dovrebbe trovare una sua diversa giustificazione proprio nell`afflizione che determina, ma questo conduce inevitabilmente a una conseguenza elementare. E` la pena di morte quella più crudelmente afflittiva e non c`è ragione al mondo, se non appunto di natura morale, per rinunciarvi, se si considera l`afflittività uno scopo in sé. C`è, infine, un`altra questione: abbiamo incontrato, nel carcere di Cuneo, più detenuti che si trovano in 41 bis da due decenni e oltre. Un trattamento speciale diventa così ordinario e normale. Ma per quanto? Se pure diamo per accertata la persistente pericolosità di quei detenuti, è pensabile protrarne la permanenza in una condizione che corrisponde, fatalmente, a uno stato assai prossimo all`annichilimento? Dove sta una qualche qualità di vita? E perché l`esecuzione capitale dovrebbe risultare ‘meno morale’ di quella forma di esistenza totalmente alienata?

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