MA, INSOMMA, È VERO CHE UN CERTO NUMERO DI MIGRANTI DEL NAUFRAGIO DI LAMPEDUSA POTEVA ESSERE SALVATO E CIÒ NON È ACCADUTO «A CAUSA DELLA BOSSI-FINI»? Per quanto possa esservi una certa forzatura nell’arrivare a una simile conclusione, sostanzialmente si tratta di una imputazione rispondente a verità. Innanzitutto perché il reticolo di norme e regolamenti, di disposizioni e atti amministrativi arrivano a configurare il soccorso, a determinate condizioni, come un reato possibile: e perché il clima politico e culturale ha trasformato quell’ipotesi, magari solo virtuale ed estrema, in una concretissima intimidazione. Ne sono conferma, tra l’altro, il fatto che i pescherecci che hanno prestato soccorso si trovino ora sotto sequestro (sia pur quale atto dovuto) e il fatto che, secondo numerosissime testimonianze, alcuni possibili soccorritori siano stati dissuasi dall’intervenire o perlomeno frenati nella loro volontà di prestare aiuto. È esattamente questo a consentire di affermare che la strage di Lampedusa trova una delle sue cause in politiche migratorie davvero irragionevoli sul piano giuridico, politico, ma anche culturale. Ne è una prova la constatazione che il favoreggiamento era già previsto come delitto quando ancora l’immigrazione irregolare costituiva un mero illecito amministrativo e il reato, di mero pericolo, si perfezionava anche quando l’azione favoreggiatrice non fosse risolutiva. Ciò basterebbe a dimostrare la valenza in primo luogo simbolica attribuito anche a questo reato, per il quale sono previsti arresto obbligatorio in flagranza e rito direttissimo.
Nel 2009 la situazione precipita ulteriormente, con un livellamento verso l’alto del carico sanzionatorio complessivo, a seguito della previsione come reato di quello che prima era un mero illecito amministrativo (l’ingresso e la permanenza irregolari nel territorio nazionale). Anche qui il valore simbolico della norma è evidente: si tratta di un reato punito con un’ammenda in realtà mai eseguibile, che si converte nella stessa sanzione amministrativa prima comminata: l’espulsione. Il mancato allontanamento configura un ulteriore reato, che può portare, in ultima istanza, alla detenzione, per un’infinità di motivi: dall’inosservanza degli obblighi connessi al regime di libertà controllata derivante da conversione di pene pecuniarie ineseguibili, alla falsa attestazione d’identità.
Questo «reato di esser nato altrove» ha avuto un effetto simbolico e ideologico rilevantissimo, qualificando come criminale la stessa condizione di straniero non in regola con le restrittive norme sull’ingresso vigenti. Il che ha determinato una paurosa regressione degli standard di civiltà giuridica del nostro Pese, riportato a un livello precedente l’affermazione dello Stato di diritto: quando, cioè, si poteva essere puniti non per ciò che si faceva, ma per ciò che si era. Ovvero non la colpa per il fatto, ma per lo stato esistenziale o il modo di essere: il povero, il vagabondo, il sovversivo. Si torna a punire oggi, in altre parole, la condizione di migrante in quanto condizione di migrante.
Di conseguenza, con le politiche migratorie degli anni 2002-2009 (dalla Bossi-Fini ai pacchetti sicurezza con l’aggravante, dichiarata incostituzionale, e il reato, di clandestinità), si sono ristrette le possibilità di ingresso regolare, in maniera del tutto incoerente con la realtà geo-politica complessiva. Parallelamente, si è incriminato ogni comportamento che non rientrasse in queste strettissime maglie, facendo terra bruciata attorno al migrante, con una corsa al rialzo nelle misure punitive e limitative nei diritti fondamentali: persino atti di stato civile o il matrimonio, precluso agli irregolari da una norma censurata, come molte altre, dalla Corte costituzionale. Che ha addirittura rivolto al legislatore un monito, del tutto inascoltato, a riesaminare l’intera disciplina in materia, ritenuta incompatibile con i principi di eguaglianza, proporzionalità della pena e della stessa sua necessaria finalizzazione al reinserimento sociale. La tragedia di Lampedusa dimostra come le politiche e degli ultimi anni non abbiano alcuna efficacia deterrente rispetto a flussi migratori: se si arriva al punto di bruciarsi i polpastrelli per evitare l’identificazione, che senso ha qualificare come reato l’abrasione delle creste papillari (ossia l’alterazione di parti del corpo ‘utili per consentire l’accertamento di identità’, come recita l’art. 495-ter c.p.)? L’intera disciplina dell’immigrazione va insomma rivista. L’Europa deve riformare radicalmente le proprie politiche in materia sulla base di quei principi di «solidarietà» ed «equità» ai quali, secondo i Trattati, devono ispirarsi, in particolare promuovendo un «sistema comune di asilo» basato realmente sulla condivisione degli oneri.
Nel 2009 la situazione precipita ulteriormente, con un livellamento verso l’alto del carico sanzionatorio complessivo, a seguito della previsione come reato di quello che prima era un mero illecito amministrativo (l’ingresso e la permanenza irregolari nel territorio nazionale). Anche qui il valore simbolico della norma è evidente: si tratta di un reato punito con un’ammenda in realtà mai eseguibile, che si converte nella stessa sanzione amministrativa prima comminata: l’espulsione. Il mancato allontanamento configura un ulteriore reato, che può portare, in ultima istanza, alla detenzione, per un’infinità di motivi: dall’inosservanza degli obblighi connessi al regime di libertà controllata derivante da conversione di pene pecuniarie ineseguibili, alla falsa attestazione d’identità.
Questo «reato di esser nato altrove» ha avuto un effetto simbolico e ideologico rilevantissimo, qualificando come criminale la stessa condizione di straniero non in regola con le restrittive norme sull’ingresso vigenti. Il che ha determinato una paurosa regressione degli standard di civiltà giuridica del nostro Pese, riportato a un livello precedente l’affermazione dello Stato di diritto: quando, cioè, si poteva essere puniti non per ciò che si faceva, ma per ciò che si era. Ovvero non la colpa per il fatto, ma per lo stato esistenziale o il modo di essere: il povero, il vagabondo, il sovversivo. Si torna a punire oggi, in altre parole, la condizione di migrante in quanto condizione di migrante.
Di conseguenza, con le politiche migratorie degli anni 2002-2009 (dalla Bossi-Fini ai pacchetti sicurezza con l’aggravante, dichiarata incostituzionale, e il reato, di clandestinità), si sono ristrette le possibilità di ingresso regolare, in maniera del tutto incoerente con la realtà geo-politica complessiva. Parallelamente, si è incriminato ogni comportamento che non rientrasse in queste strettissime maglie, facendo terra bruciata attorno al migrante, con una corsa al rialzo nelle misure punitive e limitative nei diritti fondamentali: persino atti di stato civile o il matrimonio, precluso agli irregolari da una norma censurata, come molte altre, dalla Corte costituzionale. Che ha addirittura rivolto al legislatore un monito, del tutto inascoltato, a riesaminare l’intera disciplina in materia, ritenuta incompatibile con i principi di eguaglianza, proporzionalità della pena e della stessa sua necessaria finalizzazione al reinserimento sociale. La tragedia di Lampedusa dimostra come le politiche e degli ultimi anni non abbiano alcuna efficacia deterrente rispetto a flussi migratori: se si arriva al punto di bruciarsi i polpastrelli per evitare l’identificazione, che senso ha qualificare come reato l’abrasione delle creste papillari (ossia l’alterazione di parti del corpo ‘utili per consentire l’accertamento di identità’, come recita l’art. 495-ter c.p.)? L’intera disciplina dell’immigrazione va insomma rivista. L’Europa deve riformare radicalmente le proprie politiche in materia sulla base di quei principi di «solidarietà» ed «equità» ai quali, secondo i Trattati, devono ispirarsi, in particolare promuovendo un «sistema comune di asilo» basato realmente sulla condivisione degli oneri.