«LA PRIGIONE DEGLI STRANIERI»: COSÌ CATERINA MAZZA DEFINISCE – NEL SUO LIBRO EDITO DA EDIESSE E COSÌ INTITOLATO – i centri d`identificazione ed espulsione. Rinunciando alla mistificazione lessicale che aveva indotto a qualificarli come di «permanenza temporanea» o di «permanenza temporanea e assistenza», il legislatore, quattro anni fa, ha così rinominato le strutture dove i migranti irregolari sono reclusi, oggi fino a diciotto mesi, in attesa di espulsione. Tanto urgente da dover essere prevista con decretazione d`urgenza, tale modifica nominalistica non è stata però accompagnata – né allora né in seguito – da alcuna misura che mutasse la realtà di queste strutture, spesso ignorata anche in ragione della sostanziale inaccessibilità delle stesse, cui possono essere ammessi solo soggetti istituzionali o del privato sociale coinvolti in specifici progetti di assistenza e la stampa, sulla base, tuttavia, di specifica autorizzazione prefettizia. La realtà effettiva dei centri mette a nudo carenze, illegittimità, persino i rischi cui di fatto sono esposti – per struttura e modalità di gestione della vita in comune – gli stranieri che vi sono trattenuti. E che vivono uno stato di vera e propria alienazione; di scissione, cioé, tra il proprio corpo, la propria fisicità e la propria esistenza materiale da una parte e la possibilità di riflessione dall`altra. In particolare, tutte le contraddizioni insite nella stessa disciplina di una forma di detenzione qualificata come amministrativa (e per questo priva persino delle garanzie del processo e della sanzione penali) solo perché applicata a chi nessun reato ha commesso né di nulla è imputato, salvo di essere nato altrove.
Pur non essendo meno afflittivi della sanzione penale (tanto più dopo la sua estensione fino a diciotto mesi), quella del trattenimento in questi non-luoghi destinati a non-persone è forse la misura che, più e meglio di ogni altra, rappresenta lo spirito delle politiche dell`immigrazione più recenti: la marginalizzazione, l`esclusione dalla sfera della cittadinanza e la soggezione a un sotto-sistema giuridico speciale, derogatorio delle garanzie e dei principi fondativi dello Stato di diritto. Costituito, da noi, dal reato e dall`aggravante (poi dichiarata incostituzionale) di clandestinità; da una costellazione di delitti (dall`agevolazione della permanenza illegale al reato di cessione d`immobile all`irregolare) volti a fare «terra bruciata» attorno allo straniero; dalla progressiva moltiplicazione dei casi di espulsione dall`incriminazione per- sino del disperato atto autolesionistico di chi arriva a bruciarsi i polpastrelli per non farsi identificare e dalla negazione al migrante irregolare di diritti fondamentali quali la possibilità di contrarre matrimonio.
Nasce così, in Italia come altrove, il «reato da muso nero», patologia e pathos, ad un tempo, dell`integrazione democratica che ha disconosciuto la necessarietà dell`interdipendenza umana. E quando la ricchezza della diversità si volge in minaccia, le comunità si definiscono non attraverso valori e progetti comuni, ma mediante ciò di cui hanno paura. Si identifica l`insicurezza, la devianza, l`oscura fonte della paura con il volto dell`estraneo, con lo sguardo dell`altro su noi stessi, che genera angoscia perché ci costringe ad interrogarci sulla nostra identità. E se questa non ha radici su cui fondarsi, non può che costruirsi contro l`alterità; l`appartenenza collettiva a un «noi» presuppone l`esclusione di tutti gli «altri», almeno finché la paura schiaccia la speranza e la fiducia in una convivenza non solo possibile, non solo necessaria, ma anche capace di arricchire sia «noi» che «loro». Interrogarci sulle nostre contraddizioni, sulle nostre paure, sui limiti che ci impediscono di vedere nella differenza non un`insidia ma un`occasione straordinaria di crescita, può allora rappresentare un primo, timido, passo, per ripensare i nostri modelli di convivenza, la nostra idea di cittadinanza e di comunità politica; persino la nostra stessa identità.

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