I dati recenti raccontano di un nuovo aumento della popolazione carceraria, che oggi supera di 8.000 persone la capienza degli istituti. Questo dato si aggiunge e contribuisce a una preoccupante crescita del disagio nelle carceri testimoniato dai troppi suicidi e dalle patologie psichiatriche che non trovano risposte.
Proprio in questi giorni, l’amministrazione carceraria ha deciso di richiudere le celle in assenza di opportunità di lavoro, formazione o socializzazione che, purtroppo, molti istituti non sono nelle condizioni di garantire. È un provvedimento che aumenterà il disagio e ridurrà la qualità della detenzione e che mostra come si stia tornando su una linea sbagliata.

Nella scorsa Legislatura, con la ministra Cartabia, si è tentato di cambiare le cose facendo fronte all’aumento della sovrappopolazione, non aprendo nuove carceri e recuperando il ruolo rieducativo della pena – che la Costituzione impone – mettendo al centro lavoro e formazione e non solo l’aspetto securitario. Il punto di partenza per affrontare la questione è, a mio modo di vedere, come recentemente ricordato anche dal presidente Mattarella, l’idea di considerare il carcere solo come l’estrema ratio dopo aver verificato altre strade per espiare le pene.

Pene alternative, messa alla prova, giustizia riparativa sono cose che la riforma penale della Cartabia ha giustamente tentato di incentivare. L’idea è appunto quella di recuperare e rafforzare la funzione rieducativa della pena riducendo, allo stesso tempo, la popolazione carceraria. Le misure assunte per far fronte al Covid hanno dimostrato che le pene alternative, gli arresti domiciliari e il lavoro esterno funzionano, non ci sono state infrazioni e si è consentito di non interrompere i rapporti con gli affetti. Così come l’aumento della possibilità di comunicare con l’esterno ha ridotto le tensioni che erano esplose all’inizio della pandemia.

Purtroppo, anziché diffondere e insistere sulle buone pratiche che hanno dimostrato di funzionare, la sensazione è che si stia ripiegando su una ordinaria amministrazione in cui la priorità è quella securitaria e l’aspetto rieducativo e del reinserimento passano in secondo piano. Non c’è solo l’idea che la reclusione in carcere sia l’unica strada per punire i reati ma anche il rischio di disumanizzare il carcere, perdere di vista la necessità di farsi carico delle persone e delle loro storie.

Occorre, quindi, il carcere come estrema ratio ma anche un carcere riformato le cui strutture devono garantire spazi adeguati per il lavoro e la formazione e in cui ci sia la cura del disagio psichiatrico, che ha bisogno di servizi interni ma soprattutto di adeguate strutture esterne. C’è molto da fare per rispettare il dettato costituzionale ma, chiunque governi, quella deve essere la bussola.


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