Anche la Camera si appresta ad approvare la privatizzazione volontaria del capitale della Banca d`Italia. L`espressione non piace al governo, ma questa è la realtà. Il Parlamento cassa la nazionalizzazione prevista dalla legge del 2005 e cristallizza la privatizzazione preterintenzionale che fu un effetto collaterale non governato della più generale privatizzazione delle banche, «proprietarie» della banca centrale.  
In nome della stabilità, si vara un provvedimento discutibile nel fine (la privatizzazione) e mal congegnato nel mezzo (il mercato delle quote). La stessa Bce ha formulato osservazioni che, ove fossero state riferite a un provvedimento del governo Berlusconi, avrebbero scatenato la vis polemica del centro-sinistra. Poiché i dubbi di Mario Draghi erano stati nella sostanza anticipati da chi scrive alla Commissione Finanze di palazzo Madama, vale la pena di tornare sull`argomento. Nel 2005, Ds e Margherita sostennero la pubblicizzazione della Banca d`Italia, nonostante via Nazionale fosse contraria. Ora il Pd, che di quei due partiti è figlio, cambia idea e si allinea alla banca centrale senza alcun approfondimento critico. Potremmo e dovremmo chiederci come maturano le decisioni importanti in seno al partito, chi parla con chi di che cosa, ma ormai è tardi. E allora veniamo all`execution.
Cominciamo con il dire che, ai fini della privatizzazione, basterebbe abrogare la norma nazionalizzatrice e lasciare il resto com`è. Rivalutare le quote è un di più. Alcuni quotisti le avevano rivalutate? Pazienza. La cosa non rileva nel momento in cui le quote non vengono computate dalla Banca d`Itallia nel patrimonio di vigilanza in base al quale si stabilisce la quantità di rischi sostenibile da ogni azienda di credito. Nemmeno rileva la concentrazione delle quote in capo a uno o più soggetti: finora, le quote sono state remunerate ben poco e non hanno procurato influenza sulla banca centrale. Pertanto, il gioco è un altro.
 Il capitale sociale viene aumentato dai 300 milioni di lire de11936 a 7,5 miliardi di euro attingendo alle riserve della Banca e nessun quotista potrà detenere più del 3%. Il gruppo Intesa Sanpaolo, Unicredit, Generali, Ina, Monte dei Paschi e Carige devono quindi cedere i due terzi del capitale che possiedono in eccesso rispetto al limite. A chi? Ad altre banche, assicurazioni, fondi pensione, fondazioni bancarie. Se questo ricollocamento andasse bene e poi i titoli venissero negoziati con decente frequenza, si avvierebbe un mercato delle quote capace di formare i relativi prezzi in modo libero e trasparente. A quel punto, le quote potranno essere iscritte al fair value nel comparto dei titoli disponibili per la negoziazione e come tali potrebbero essere conteggiate nel patrimonio di vigilanza.
Ma se le quote si rivelassero poco attraenti e restassero invendute? In quel caso franerebbe tutta la costruzione. Il punto critico dell` execution è questo.
Già prima della lettera di Draghi, manifestai forti perplessità sulla reale attrattività delle quote di un capitale rivalutato a 7,5 miliardi. Gli investitori liberi – e noi dobbiamo pensare che tali siano i quotisti attuali e futuri della Banca d`Italia – comprano titoli o perché danno potere o perché danno un rendimento o perché danno l`uno e l`altro. Nel nostro caso, il potere non c`è. Ed è bene che così sia. Resta solo il rendimento. E qui casca l`asino.
La rivalutazione a 7,5 miliardi si fonda sull`attesa di dividendi pari a 450 milioni di euro l`anno, che danno un rendimento del 6%. È scritto nel parere degli esperti, designati dalla Banca d`Italia. Senonché il decreto non garantisce alcun rendimento, meno che mai del 6%. Questa percentuale costituisce soltanto il tetto delle remunerazioni possibili. Lungi dall`essere un plus, esso rappresenta un minus in caso di un`impennata dei tassi. Sul bilancio 2012 la Banca d`Italia ha versato 70 milioni ai quotisti. Ne darà di più a valere sul 2013? Forse, ma stiamo parlando di 80-100 milioni. Questo ti dicono in via Nazionale. Nessuno si sogna di dare davvero 450 milioni nei prossimi anni. Per essere appetibile, la quota di Banca d`Italia dovrebbe rendere quanto il Btp decennale più un premio per il rischio (non ha garanzia statale di rimborso e non offre un minimo garantito) e un altro premio per la minore negoziabilità rispetto ai titoli di Stato (i possibili compratori sono infinitamente meno). Diciamo dunque che la quota dovrebbe rende- re un 4,5% annuo. A tale scopo la Banca d`Italia dovrebbe distribuire più o meno 340 milioni. Non accadrà, accetto scommesse. Con la Bce che esorta la Banca d`Italia a ricostituire le riserve ora destinate a capitale e il Tesoro affamato di quattrini, dove mai Ignazio Visco troverà i denari per dividendi del 4,5%? Ma se la remunerazione delle quote sarà dell`1,5% lordo, perché dovrebbero essere appetibili? Senza appetibilità non ci sarebbe vendita, e dunque verrebbe meno il mercato e dunque la possibilità di iscrivere le quote tra i titoli disponibili per la negoziazione, e dunque non avremmo l`aumento dei patrimoni di vigilanza di cui tanto si parla.
 Il ministro Saccomanni è convinto che simili preoccupazioni non siano fondate. Ma, replicando alle mie riserve in Senato, ha prima paragonato le quote ai Btp e poi ai Bund tedeschi e ai Treasury Usa, definiti, i Bund e i Treasury, senza rischio. Vedremo se i potenziali acquirenti ci crederanno. Certo, la Banca d`Italia può avere un placing power superiore a quello dei comuni mortali. Può essere che l`improbabile collocamento vada comunque a buon fine. E tuttavia è la stessa Banca d`Italia a dubitarne nel momento in cui si fa assegnare dal decreto la facoltà di ritirare le quote in eccesso, pagando fino a 4,8 miliardi, ma forse anche più se quotisti con meno del 3% vorranno comunque ridurre il loro «investimento». Questa facoltà trasforma la Banca d`Italia in garante del collocamento delle quote. Garante, si badi, sine die, visto che il decreto non fissa alcun termine entro il quale le quote prese in carico da via Nazionale debbano essere ricollocate né chiarisce che fine dovrebbero fare le quote rimaste in cassaforte oltre il termine.
In questo modo tortuoso, si consentirà alle banche di monetizzare le quote facendosele comprare dalla Banca d`Italia, E poi chi vivrà vedrà via Nazionale cancellare le quote divenute quote proprie. Sarebbe stato più chiaro, ancorché a mio avviso errato, cancellare la norma Tremonti senza null`altro fare. Se proprio si voleva rivalutare, si sarebbe potuto farlo su valori molto più bassi, tali da risultare proporzionati ai dividendi realmente erogabili e perciò rendere possibile un mercato decente delle quote. In ogni caso, si dovrebbe prevedere che, dopo un periodo prefissato, la Banca d`Italia debba restituire pro quota, e al prezzo originario aggiornato per l`inflazione, ai venditori le quote ritirate ma non più collocate. I quali venditori avrebbero diritto al dividendo ma non al voto oltre il 3%. È uno schema troppo difficile? No, non lo è. Ma, si dice, in questo modo le banche quotiste avrebbero meno e comunque avrebbero somme che un giorno dovrebbero magari restituire. E qui ricasca l`asino.
Il mercato è una cosa seria. L`intervento pubblico pure. Parliamoci chiaro, una volta tanto. Più di questa mancia, ai fini dell`attività creditizia contano le regole della nascente Unione bancaria europea: da come vengono considerate le garanzie reali sui prestiti a come vengono contabilizzati i titoli di Stato. Se poi, risolti questi problemi, le banche avessero ancora bisogno di capitali, og- gi esiste un mercato pieno di liquidità, pronto a entrare pure nel Monte dei Paschi. Se infine servisse, potrà intervenire lo Stato per un periodo limitato, ma apertamente. E` già avvenuto in Germania, Regno Unito, Gran Bretagna e Olanda. Se invece si inventa un mercato delle quote che non ci sarà, per ricapitalizzare le banche con soldi pubblici e non diluire gli attuali gruppi di controllo, ma senza dirlo, si accrescerà la fama dell`Italia come Paese machiavellico e inaffidabile.

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