IL PIANO PRIVATIZZAZIONI ANNUNCIATO DA LETTA RISPONDE A ESIGENZE di cassa del Tesoro e non ai disegni palingenetici degli anni `90 quando si pensava che privato è meglio, sempre e comunque. Queste ambizioni più circoscritte consentiranno un esame di merito in Parlamento. Certo, il ministero dell`Economia detiene direttamente talune partecipazioni (Eni, Stm, Enav) e indirettamente, tramite la Cassa depositi e prestiti e le Fs, altre (Sace, Fincantieri, Cdp Reti, Tag, Grandi Stazioni/ Cento Stazioni).
Ma sarebbe bene che lo Stato azionista, prima di procedere, ascoltasse Camera e Senato. La fretta, quando non c`è un`emergenza, fa i gattini ciechi. A tal proposito, ha ragione Matteo Renzi. Del resto, chi scrive aveva già lanciato i dovuti avvertimenti dalle colonne di questo giornale il 20 ottobre, non appena si erano sparse da Washington le prime notizie sulla terza tornata di privatizzazioni. Non c`è fretta perché non stiamo abbattendo il debito pubblico. Se così fosse, chapeau. In realtà, gli stiamo dando solo una limatina di 5-6 miliardi. Secondo le agenzie, solo la metà dell`incasso previsto tra i 10 e i 12 miliardi andrà a riduzione del debito, che a metà ottobre era pari a 2.060 miliardi. Non sto a calcolare le percentuali di incidenza perché irrilevanti. Già nelle scorse settimane lo stock del debito pubblico aveva subito oscillazioni naturali per una decina di miliardi. Avrebbe un rilievo superiore, ancorché non decisivo, il ritiro dei 50 miliardi versati dall`Italia al Fondo salva stati nel quadro di una ridefinizione del meccanismo di finanziamento di questo Fondo trasformando il versamento diretto, fatto a debito da tutti, in un diritto di prelievo al momento del bisogno. Va dato atto a Letta di avere questo tra i suoi obiettivi. Ciò detto, alcune iniziative del piano mi sembrano sbagliate tout court, altre invece vanno meglio capite. Considero un errore serio vendere il 3% dell`Eni. Saggiamente il Tesoro non vuole scendere sotto il 30%, per non correre rischi di scalate ostili e, anche, per meglio controllare le assemblee dove il voto dei fondi sta assumendo un peso crescente in seguito al diritto loro riconosciuto di votare anche senza avere più il possesso materiale delle azioni nel giorno dell`assemblea. Ma per poter vendere il 3% e non scendere sotto il 30,1% che il Tesoro e la Cassa depositi e prestiti detengono, lo stesso Tesoro deve consentire all`Eni di acquistare azioni proprie per il 10% del capitale, spendendo a valori correnti circa 6 miliardi. Per una società indebitata, sia pure in misura non grave, investire in azioni proprie è una scelta opinabile. Siamo sicuri che l`Eni non abbia destinazioni produttive migliori per le proprie risorse nel momento in cui fatica ad avvicinarsi all`obiettivo dei 2 milioni di barili al giorno, da anni proclamato e mai raggiunto? A Wall Street lo sport del buy back è molto praticato. William Lazonincs lo ha studiato e, in un suo bellissimo paper, ha concluso che il buy back e la generosa distribuzione di dividendi avevano trasformato la Borsa da luogo di finanziamento delle imprese a mero mercato dei diritti di proprietà. Letta merita tutto l`appoggio possibile, e lo dico a scanso di equivoci. Ma è questa la sua politica industriale? Far bruciare 6 miliardi all`azienda Eni per poterne portare a casa uno e mezzo? In passato, un`iniziativa del genere, venne impedita dal consiglio di amministrazione presieduto da Roberto Poli. Nel 2012, invece, annullando le azioni proprie già acquistate, il nuovo consiglio, presieduto da Giuseppe Recchi, ha posto le premesse per l`errore che si profila, ancorché possa far guadagnare punti a chi lo commette in vista delle nomine della prossima primavera. D`altra parte, le azioni Eni danno dividendi nettamente più consistenti degli interessi passivi che il Tesoro andrebbe a risparmiare sulla quoterella di debito cancellata con l`incasso della vendita delle azioni. Non sto a ripetere i numeri già dati il 20 ottobre, anche a proposito di Terna e di Snam. È la stessa musica. Rispetto al piano originario, tuttavia, par di notare un miglioramento sul fronte delle partecipazioni della Cdp. Ferma restando l`esigenza di una valutazione più approfondita, se viene ceduta una parte della holding Cdp Reti, che controlla Terna e che potrebbe controllare Snam, e l`incasso viene trattenuto per ricapitalizzare la Cdp, questo non sarebbe male. Su Fincantieri, ci ripetiamo. Bene, benissimo la quotazione in Borsa purché avvenga almeno in parte con un aumento di capitale che rafforzi l`impresa impegnata in acquisizioni internazionali e nel piano di modernizzazione della marina militare italiana. La Sace potrebbe essere venduta anche per intero, se lo Stato si rende garante, come accade in Francia e Germania, dell`assicurazione dei crediti. Diversamente, una Sace privata e senza scudo lascerebbe al loro destino le imprese che non fossero così forti da potersi assicurare da sé. Quanto alle Grandi Stazioni, verrebbe da dire: ottimo. Purché l`incasso serva alle Fs per riqualificare il trasporto ferroviario non ad alta velocità. Quanto diciamo per Cdp, Fincantieri, Sace e Fs farebbe Pil e darebbe lavoro. Se si vuole ridurre l`incidenza del debito sul Pil, persa l`occasione di una patrimoniale straordinaria alcuni anni fa, quando la ricchezza degli italiani era maggiore di oggi, non resta che agire sul denominatore, sul Pil. E per far ripartire la crescita bisogna riorientare i grandi flussi finanziari e generarne di nuovi. Destinandoli allo sviluppo. Ma per un tal fine bisogna uscire dal recinto dei soliti pensieri.

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