Titola il Corriere della Sera: «Letta: basta soldi ai partiti». Gli fa eco Repubblica: «Soldi ai partiti, stop entro luglio». Il Sole 24 Ore, con maggior concretezza, teme che l`enfasi sull`annuncio della prossima fine dei rimborsi elettorali serva a distogliere i riflettori dei media dai troppi rinvii di decisioni di politica economica e industriale. 
 La sobrietà dello stile impedisce al quotidiano della Confindustria di colorare il proprio dubbio paragonando la mossa di palazzo Chigi ai diktat di Beppe Grillo sulle diarie dei suoi parlamentari, anch`essi finora poco concludenti. Certo, la questione del finanziamento pubblico dei partiti merita idee più lungimiranti e responsabili della demagogia anticasta che ieri trovava un antidoto di saggezza proprio nel commento di Sergo Rizzo e Gianantonio Stella sul Corriere. Il premier Enrico Letta e il ministro Gaetano Quagliariello hanno la cultura per evitare certe derive. Ma prima di emettere sentenze aspettiamo di vedere un testo del governo. Separare del tutto la politica dai soldi non si può. Ne deriverebbe un regime proibizionista dentro il quale i furbi prospererebbero nell`ombra. Si possono, invece, e si devono Illuminare e regolare i flussi finanziari che dai cittadini e dal mondo dell`economia vanno ai partiti e ai movimenti che partecipano alle elezioni: questo è il fondamento di quella competizione politica trasparente e meritocratica che sta a fondamento della democrazia. Ed è precisamente in un tale contesto che l`attuazione dell`articolo 49 della Costituzione ritrova una nuova pregnanza, dopo essere stato disatteso per mezzo secolo, e, va detto, non senza qualche ragione nella realpolitik. Pretendere trasparenza quando il mondo era diviso in blocchi, e dagli Usa e dall`Urss, dalle partecipazioni statali, dalla grande industria privata e dalle cooperative venivano denari a partiti e sindacati, era giusto in linea di principio, ma in linea di fatto avrebbe minato in radice l`identità dei partiti e di una democrazia ancora fragile. La perfezione non è di questo mondo. Dopo la fine della Guerra fredda, la scoperta di Tangentopoli e la discesa in campo di un miliardario sarebbe stato il caso di adottare rimedi radicali. Non è accaduto. Anzi, si è scelta la strada dei rimborsi elettorali automatici e troppo generosi per poter essere considerati tali. Male, malissimo. Ma adesso stiamo attenti a non consegnare la politica ai ricchi e ai santoni. Come nel secolo XIX. Nell`Italia del 2013, sconvolta dalla ventata innovratice del MS5 che ha importato le esperienze americane delle aggregazioni politiche in rete, la riforma del finanziamento dei partiti e dei movimenti si articola attorno a due parole chiave: partecipazione e trasparenza. Un politico miliardario non fatica a staccare assegni milionari per la causa, e a guadagnarsi con ciò le benemerenze del caso fino a comprarsi la leadership. Al cittadino a basso reddito questa opportunità è preclusa. In un`economia di mercato non desta scandalo se il ricco si può comprare la Ferrari e l`operaio la Punto o la Yaris. Per una democrazia, invece, una differenza troppo marcata nelle possibilità di finanziamento della politica tra i cittadini apre un problema molto serio sulla rappresentanza che poi ne deriva. La legislazione in materia non parte da zero, specialmente all`estero. E dunque si dovrà pur precisare se ai finanziamenti liberi delle persone fisiche e giuridiche debba essere posto un limite, e se sì quale. Ma se la Repubblica incoraggia i cittadini alla partecipazione alla vita politica democratica una forma nuova di finanziamento pubblico andrà pur prevista a beneficio degli ultimi, dei penultimi e dei terz`ultimi della scala sociale. O li vogliamo lasciare alla finestra?
 Partecipazione vuol dire che sta direttamente ai cittadini interessati regolare il flusso delle risorse. L`idea dell`uno per mille avanzata dal governo è condivisibile, purché questo uno per mille sia indirizzato chiaramente al partito o movimento prescelto. Gli scettici ricordano che una soluzione del genere venne sperimentata negli anni 90 con risultati irrilevanti, ma va anche ricordato che, allora, la somma era destinata ai partiti in generale e che, essendo alle viste i ben più tranquilli e pingui rimborsi elettorali, non venne perseguita seriamente da nessuno. Nemmeno dai partiti progenitori del Pd. Ma perché non considerare anche l`idea di un credito d`imposta a favore dei cittadini che vogliano destinare al partito o al movimento prediletto l`equivalente di una tessera?
Nell`elaborazione del professor Pellegrino Capaldo, che all`inizio del 2012 lanciò questa proposta, il credito d`imposta dovrebbe essere sostanziale, pari al 95%, ma riferito a somme non superiori ai 2000 euro. Interessante è anche la via tedesca del co-finanziamento pubblico della raccolta di fondi privata: il partito X raccoglie 10 milioni dai simpatizzanti e ne riceve 3 o 4 o 5 in aggiunta dallo Stato. In ogni caso, d`accordo con la Ragioneria dello Stato, per tutte queste proposte va individuata una copertura nei conti pubblici. Così da porre comunque un tetto, regolabile sulla base dell`esperienza.
 È finanziamento pubblico questo? Sì, lo è. Ma non è a pioggia ed è limitato nelle quantità, così da scoraggiare l`eccesso degli apparati. Ed è pure scomodo da prendere, così da costringere le organizzazioni a sudare per conquistarselo. Tanto più rfusciranno nell`impresa, queste organizzazioni, quanto saranno anche trasparenti. Ed è adesso, non prima, che torna l`articolo 49 della Costituzione.
Non si tratta, attuandolo, di addomesticare la vita dei partiti e dei movimenti politici entro schemi precostituiti, disegnati su misura per qualcuno e non per qualcun altro. Si tratta di giocare sopra il banco e non sotto. Se un partito vuole essere monocratico, lo sia. Se vuole le primarie, le faccia ma non pretenda di imporle ad altri. Se preferisce i meet up invece delle sezioni, ottimi i meet up. Ma uno statuto ci vuole; lo stesso M5S lo ha depositato, mi pare. E tutti devono poter sapere, leggendolo facilmente sul sito, chi siano i dirigenti e il modo di selezionarli (modo libero, ripeto) quali siano le sedi nazionali e locali, a chi appartengano il simbolo e la ragione sociale nonchè gli organi di comunicazione su qualsiasi piattaforma tecnologica con allegati bilanci certificati, quali siano i bilanci annuali certificati delle organizzazioni e associazioni politiche che partecipano alle elezioni, con allegato non solo l`elenco nominativo dei donatori oltre una certa cifra ma anche quello dei creditori finanziari, con precisa indicazione delle condizioni del prestito. Sarebbe infine auspicabile che i leader nazionali di partiti e movimenti, ancorché non siedano né alla Camera né al Senato, siano sottoposti agli stessi obblighi di trasparenza dei parlamentari. Nessuno verrebbe discriminato con regole del genere: né i partiti tradizionali, che certo dovrebbero sottoporsi a drastiche (e salutari) cure dimagranti, né i partiti leaderistico-proprietari, che dovrebbero chiarire meglio la propria natura (legittima), né movimenti nuovi come il M5S, che dovrebbero dare qualche informazione in più all`elettorato. Per ciascuno ci sarebbe un po` di ansia da cambiamento, ma il gioco democratico ne guadagnerebbe.

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