«Ci troviamo di fronte all’inedito di una riforma costituzionale, quella della giustizia, che il governo presenta in aula come blindata, senza neppure dissimulare un barlume di rispetto per il parlamento. Il ministro della giustizia Nordio ha detto più volte che tale riforma costituzionale non è modificabile dal parlamento», esordisce così Andrea Giorgis, giurista, senatore e capogruppo Pd in commissione affari costituzionali.
Cosa rappresenta questa forzatura, professore?
È un fatto gravissimo. Non solo per le opposizioni, ma per la democrazia parlamentare: la Costituzione non è nella disponibilità del governo. Le norme costituzionali dovrebbero sempre essere un patto tra tutte le forze politiche, non un patto dentro il governo che il parlamento deve solo ratificare. Altrettanto grave è stroncare il confronto in commissione, fissando a maggioranza una data per il voto in aula, l’11 giugno, ipotizzando il ricorso al cosiddetto «canguro», come se si trattasse di convertire un decreto legge che sta per scadere.
Questo nel metodo. E nel merito?
La riforma che non migliorerà in alcun modo la qualità e i tempi del servizio giustizia, ma finirà solo con il rafforzare la funzione requirente dei pubblici ministeri ed indebolire l’indipendenza e l’autonomia della magistratura nel suo insieme.
Che idea di Stato esce dal combinato disposto delle riforme?
Il governo Meloni ha aperto, fin dall’inizio della legislatura, uno scontro con i capisaldi della democrazia parlamentare e pluralista, con lo stato di diritto costituzionale e i limiti del diritto europeo e internazionale. Lo ha fatto e continua a farlo attraverso l’abuso della decretazione d’urgenza, si pensi da ultimo al cosiddetto decreto sicurezza, il cui unico presupposto di straordinaria necessità e urgenza era impedire che il parlamento concludesse il proprio lavoro e, contravvenendo alla inaccettabile pratica del monocameralismo di fatto, svolgesse una terza lettura. Lo ha fatto attraverso i ripetuti tentativi di superare le decisioni della magistratura (nazionale e internazionale) specie in materia di immigrazione; e sta cercando di farlo attraverso la riforma del premierato.
Oggi la maggioranza ha deciso di calendarizzare l’esame del premierato, che pareva su un binario morto, per luglio alla camera.
Con l’elezione diretta del presidente del consiglio, e la contestuale elezione di una sua maggioranza parlamentare eletta per trascinamento si passerà dalla primazia del parlamento e del pluralismo che in esso trova rappresentanza e composizione, alla primazia del governo e in particolare dell’Uno/o dell’Una; e si determinerà una concentrazione del potere in una sola figura, il presidente del Consiglio, che non ha eguali in nessuna democrazia costituzionale.
Cosa dovrebbe fare adesso l’opposizione?
Innanzitutto continuare a mettere bene in evidenza cosa sta accadendo, e naturalmente credere nelle persone e nella loro capacità di comprendere i rischi di una simile torsione illiberale e i nessi con le crescenti disuguaglianze, e con l’acuirsi della crisi economica e sociale. Sul piano istituzionale abbiamo avanzato proposte serie per contrastare l’abuso della decretazione d’urgenza, per rafforzare la capacità di governo democratico dei processi economici e sociali, per rendere la nostra democrazia più partecipata e soprattutto più capace di rimuovere quegli ostacoli, oggi sempre più consistenti, «che impediscono il pieno sviluppo della persona umana» ed escludono troppi dall’effettivo esercizio dei diritti fondamentali, come il diritto alle cure o a un lavoro sicuro e retribuito in maniera giusta.
Martedì prossimo il decreto sicurezza sarà convertito definitivamente dal senato.
Probabilmente si, attraverso l’ennesima forzatura e mortificazione del parlamento, in palese violazione dei presupposti costituzionali della decretazione d’urgenza, e senza peraltro garantire alcuna maggiore sicurezza ai cittadini, ma togliendo soltanto a tutti noi un po’ di libertà. Perché con il solo diritto penale (ben 14 nuovi reati) e l’inasprimento (sproporzionato e del tutto irragionevole) della detenzione, senza investimenti sulle marginalità, sulle rigenerazioni urbane, sulla funzione rieducativa della pena, sulle condizioni di lavoro del personale delle forze di pubblica sicurezza, non si garantisce alcuna sicurezza.


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