Lo scopo del presente testo è solo quello di ricostruire i principali interventi di Pietro Scoppola come senatore nella legislatura 1983-1987, che è solo uno dei contributi da lui lasciati al Paese.
Gli interventi sono di due tipi.
In Aula si tratta del discorso del 3 agosto 1984 in occasione della revisione del Concordato che abbraccia in realtà i nodi complessivi del rapporto tra religione e politica
Invece in Commissione si tratta di tre interventi alla Commissione Bozzi sulle riforme istituzionali del 20 gennaio 1984, del 5 luglio dello stesso anno e del 16 gennaio 1985.
In Aula il 3 agosto 1984 Scoppola segnala che pur essendo formalmente il nuovo Concordato una revisione del precedente, in realtà l’operazione che si sta realizzando segna un salto qualitativo ben maggiore. Mentre i Concordati avevano avuto “storicamente origine per lo più dall’esigenza di sanare i dissidi e i conflitti tra lo Stato e la Chiesa”, come avvenuto anche nel 1929 e nel 1947, il nuovo testo veniva invece a costituire “un Concordato di collaborazione”. Da parte della Chiesa dovrebbe venir meno “ogni ricerca di privilegio” e dall’altra, nelle culture politiche di matrice laica, dovrebbe cadere la “concezione privatistica del fatto religioso” a favore di una visione autenticamente pluralista. La separazione tra le istituzioni, tra Chiesa e Stato, non dovrebbe infatti far negare la realtà di una presenza che “è anche un fatto sociale” che non può non avere “un rilievo istituzionale”. Questo rilievo secondo Scoppola è dimostrato anche dall’arricchimento del sistema delle fonti all’insegna “di uno spostamento del baricentro del Concordato verso la base della società”: non più solo un accordo di vertice tra Stato italiano e Santa Sede, ma apertura anche ad ulteriori intese fra Stato e Conferenza Episcopale italiana.
Qui garbatamente Scoppola critica alcuni dei cattolici eletti come indipendenti eletti nelle liste del Pci perché essi avevano assunto una posizione a priori anti concordataria che a Scoppola sembrava dovuta più a una preoccupazione ecclesiale, di rinnovamento della Chiesa, costretta a diventare più debole e povera nel caso in cui si fosse eliminato lo strumento, che ad una scelta politica, il terreno su cui dovrebbero porsi i parlamentari: “Non possiamo chiedere allo Stato, come pretendeva Bettino Ricasoli, di farsi esso riformatore della Chiesa. Vorrei dire: amici, riformiamo prima noi stessi, ossia lo Stato, perché probabilmente ne abbiamo bisogno”.
Questo non significa che Scoppola ritenesse soddisfacente l’esito concreto raggiunto nei vari ambiti. In particolare il mantenimento dell’Insegnamento della Religione Cattolica, sia pure da inquadrare nelle finalità della scuola, aveva portato con sé l’inevitabile carattere facoltativo della disciplina. Un insegnamento affidato a “docenti scelti d’intesa con l’autorità ecclesiastica” non poteva di per sé comportare più nessuna forma di obbligatorietà anche “surrettizia”. E tuttavia questa soluzione lasciava scoperta l’esigenza di formazione culturale in materia religiosa dei non avvalentisi che Scoppola tendeva a risolvere o espandendo i riferimenti alle “tematiche religiose nei programmi di storia, filosofia e letteratura” o con la proposta di un insegnamento “alternativo o aggiuntivo a quello confessionale”. Un problema aperto che aveva ancora “bisogno di riflessione, di uno sviluppo, di un dibattito culturale disteso, sereno, nel quale cercare punti di comprensione e di raccordo, anziché irrigidirsi su soluzioni preconcette”. In altri termini a Scoppola sembrava un compromesso di basso profilo in cui pur di mantenere il controllo sull’insegnamento la Chiesa aveva accettato la facoltatività e, nel contempo, allo Stato bastava la facoltatività per essere rassicurato sulla separazione con la Chiesa, mostrando con ciò di non credere all’importanza del tema nella formazione degli studenti.
Purtroppo, mentre i problemi si sono aggravati e siamo, in ambito di cultura religiosa, di fronte a quella che Olivier Roy ha definito una “santa ignoranza”, in cui affonda le radici anche il terrorismo fondamentalista di matrice islamista, siamo ancora a quel punto irrisolto.
Nella Commissione Bozzi il 20 gennaio 1984 Scoppola esordisce richiamando il carattere incompiuto del patto costituente, che aveva determinato una forma di governo debolmente razionalizzata e un proporzionalismo estremo: “esisteva un problema di reciproca diffidenza, che rendeva impossibile pensare a istituzioni forti”. Da qui, invece, in un contesto diverso, segnato da un progressivo riavvicinamento delle posizioni, l’esigenza di un salto di qualità: “dobbiamo fare in modo che i cittadini contino di più, che il voto non sia soltanto una delega in bianco che i partiti gestiscano senza assumersene alcun onere, senza una precisa responsabilità verso l’elettorato, se non alla scadenza successiva, che l’elettore sappia, nel momento in cui il voto viene esercitato, quale uso di quel voto sarà fatto, per quale schieramento, in quale maggioranza, per quale Governo, Ma ci rendiamo conto che il nostro paese è l’unica democrazia industriale dell’Occidente nella quale si vota senza sapere se il proprio voto risulterà prevalente e quale sarà il Governo, mentre in tutte le altre democrazie – anche nella Spagna, giunta ultima all’esperienza democratica – questo ormai è possibile con qualche approssimazione? Da noi, viceversa, la formazione della maggioranza di Governo rappresenta sempre una sorpresa rispetto al momento del voto. Questo è un problema non di decisionismo, ma di raccordo tra funzione e rafforzamento delle istituzioni e riconoscimento dei diritti dell’elettore”.
Per Scoppola, infatti, il punto di partenza dell’analisi non doveva essere quello della posizione debole del Governo in Parlamento negli strumenti fisiologici (mentre a causa della loro assenza era già diventato abnorme il conseguente ricorso alla decretazione d’urgenza) ma dal “raccordo con l’elettorato, con la fonte della sovranità”. I maggiori poteri del Governo in Parlamento si giustificavano con la legittimazione diretta di quest’ultimo, col “riconoscimento di più ampie possibilità di partecipazione democratica” verso cui si doveva procedere modificando la legislazione elettorale.
Nel successivo intervento del 5 luglio Scoppola evidenziava poi come il voto di preferenza si fosse progressivamente trasformato come una delle caratteristiche più negative del sistema. In precedenza quando le scelte di partito erano il mero riflesso del “sentimento di appartenenza di tipo ideologico” la preferenza poteva introdurre un elemento di scelta degli elettori, mentre in seguito essa era divenuta un meccanismo di “frammentazione” interna ai partiti, potenziando la logica della rappresentanza di “interessi settoriali e locali” oltre al problema “più noto” dell’ “uso dei mezzi che vengono spesi per acquisire le preferenze”.
Scoppola denuncia come patologia anche l’eccessiva estensione del voto segreto, che elude “un’assunzione complessiva di responsabilità”. Un tema che, com’è noto, rimase attuale sino alla riforma regolamentare del 1988 e, per certi versi, sia pure più limitati, anche dopo.
Infine, il 16 gennaio 1985, Scoppola a titolo personale, ma col sostegno di Pasquino, Barbera e Lipari, presenta una mozione di riforma minimale, basata sull’adozione di un sistema simil-tedesco, fondato su collegi uninominali e liste bloccate corte, ma con voto unico tra collegio e lista e senza soglia di sbarramento. Una proposta minimale, che non superava ancora la proporzionale pura, e che quindi non rispondeva agli obiettivi ancora ribaditi nell’intervento (“incidere anche sulla scelta più importante nella vita pubblica, cioè la formazione del Governo”), ma che avrebbe quanto meno evitato di concludere i lavori con un nulla di fatto. Come invece purtroppo accadde.
Anche su questo secondo tema, purtroppo, resta tutt’oggi uno scarto significativo tra quei princìpi e la realtà.