Guido Panvini ha scritto un libro molto bello su ‘Cattolici e violenza politica. L`altro album di famiglia del terrorismo italiano’ (Marsilio 2014). Si tratta di un ottimo lavoro che, finalmente, non ricorre ai tradizionali stereotipi sul rapporto di specularità tra assolutismo religioso e comunismo escatologico nella genesi del terrorismo. In altre parole, al di là della sovrapposizione e talvolta della parziale integrazione tra pulsioni emotive e idee palingenetiche, derivanti da due tra le grandi culture nazionali, c`è da considerare un`importante questione storica. Quella costituita dai movimenti, dalle organizzazioni e dalle correnti gli,pensiero che alimentano i mondi vitali, dai quali – attraverso itinerari sempre tortuosi – si può arrivare alla scelta dellajotta armata. E` qui, nel corso di un lungo periodo storico, che sono cresciute non solo quelle ‘tentazioni’ verso la violenza politica, ma anche le sue ‘giustificazioni’. Intese come motivazione sociale, legittimazione giuridica, argomentazione etica e persino – per il pensiero cattolico – elaborazione teologica. Panvini scava in questo intreccio di cause, indagando su come esse rimandino a vissuti individuali e collettivi, dibattiti intellettuali, ricerche sociali ed esperienze religiose, ma anche a pastorale e dottrina. Una dettagliata indagine che mai dimentica lo scenario generale, con particolare riferimento a quegli anni Sessanta, quando davvero ‘tutto cominciò’. Ricordo bene come su di me, non ancora ventenne, e su molto miei simili, l`enciclica Populorum progressio (marzo 1967) ebbe un effetto dirompente. Quel documento riflette intensamente, e drammaticamente, il tornante cruciale (‘epocale’ è termine appropriato per una volta) rappresentato dal periodo tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Settanta. Nella Populorum progressi° il ripudio della violenza politica viene argomentato con ragioni sociali e culturali, dottrinarie e teologiche. E, tuttavia, quel ripudio non è assoluto. Ecco la frase più significativa: ‘Sappiamo che l`insurrezione rivoluzionaria salvo nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del paese – è fonte di nuove ingiustizie, introduce nuovi squilibri e provoca nuove rovine. Non si può combattere un male reale a prezzo di un male più grande’. Il ragionamento è limpido, ma si noti quel ‘salvo che…’. E` il segno di come anche la cultura cattolica, la più alta, risenta del ‘secolo’.
 Nel linguaggio della pastorale, ‘secolo’ e ‘secolare’ corrispondono a mondano: ovvero quanto appartiene al mondo, e gli è proprio. Ma secolo è anche il 900: l`epoca dei totalitarismi e dei genocidi. E delle resistenze contro il nazifascismo. La cultura del cattolicesimo (direi: la cultura politica del cattolicesibo) risente a tal punto delle tragedie dell`epoca che,ne risultano condizionate,,in profondità le risposte a quelle stesse tragedie. E, tra le risposte, il metodo dell`azione politica e la possibile variabile-violenza nel repertorio delle forme di lotta. La pastorale e la dottrina riconoscono tutto ciò, anche se faticosamente, proprio perché il pensiero politico cattolico è drammaticamente calato nel proprio tempo e in ciò che esso ha prodotto nella politica, sia come degenerazione dei sistemi sia come reazione a quella degenerazione: totalitarismo e violenza anti totalitaria. Ecco, dunque, che di fronte a una ‘tirannia evidente e prolungata’ la violenza può trovare una sua legittimazione. Di natura anche morale e teologica. Il fatto che quella deroga non sia ulteriormente approfonclipre un varco logico, che si presteràaffilte interpretazioni e giustificazioni: e da parte della teologia della liberazione latinoamericana e da parte di segmenti dei movimenti sociali della fine degli anni Sessanta. E, tuttavia, qui voglio evidenziare altro: come, cioè, la cultura del 900 pressoché tutta – con la sola eccezione di alcune minoranze liberali, non violente e radicali – abbia mantenuto nei confronti della violenza politica un atteggiamento appunto politico. Ne subordinò il ricorso, pertanto, a considerazioni. di natura eminentemente tattica e strumentale (efficacia rispetto allo scopo). Solo successivamente, e da più parti (religiose e laiche), l`arma della violenza politica verrà ritenuta sempre controproducente, oltre che sempre moralmente riprovevole.
Il ‘problema Fini’
In ogni caso, persiste l`inossidabile abitudine a leggere il terrorismo attraverso ‘nuove rivelazioni’ (ancora i motociclisti di via Fani, Dio mio!) e rappresentazioni così logore da risultare risibili. Un esempio addirittura comico è quello fornito da Massimo Fini sul Fatto del 16 gennaio scorso. Fini scrive amabilmente che ‘in quegli anni postsessantottini in cui quasi tutti i giornali e i giornalisti se la davano da rivoluzionari era un delitto di lesa maestà indagare a sinistra’ (qualcuno dovrebbe ricordargli che ‘in quegli anni’ Pietro Valpreda passò 1.110 giorni in carcerazione preventiva). Poi ricostruisce, come può, la vicenda relativa all`omicidio di Luigi Calabresi. L`articolo riciccia vecchi interventi (ah, i danni che combina il copia incolla sul web) con una scrittura povera e malferma, tra il loffio lo sciatto e il pedestre, con frasi fatte e rifatte, vergate con la zappa. D`altra parte, l`autore è un tipetto così: incontratolo nella seconda metà degli anni Novanta, mi mostrò una pistola che portava – mi disse – non so più se per difendersi dai fascisti o dai brigatisti. Ma dove Fini dà il meglio di sé è nel finale dell`articolo, quando a proposito di Adriano Sofri scrive: ‘Era piccolo, mingherlino, il mento sfuggente del prete, l`aspetto molliccio per nulla virile’. Ora, delle tre l`una: o per il Fatto trattare in tal modo gli avversari rientra nei parametri del giornalismo democratico (specie di quello, come si dice, ‘con la schiena dritta’), così come la fisiognomica e il ricorso spregiativo al termine ‘vecchio’ (io provvidenzialmente ne sono al riparo perché il direttore del Fatto è addirittura più vecchio di me); o nessuno legge ciò che scrive Fini; o, ancora, qualcuno lo legge e pensa: vabbé, lo sapete com`è quello. Resta il ‘problema Fini’. Questo sgrammaticato articoletto conferma ciò che sospettavo: Fini patisce parossisticamente quel vizio inconfessabile che è l`invidia. Già mi è capitato di ricordare che, anni fa, scrisse in un suo libro che non riusciva a spiegarsi come mai i suoi articoli non li notasse nessuno e i miei, a suo dire e a suo scorno, venissero frequentemente citati. E rivelò anche che í miei sarebbero stati pagati molto più dei suoi. Un soggetto simile, palesemente, non si preoccupa se, a una descrizione così malevola del bellissimo Sofri, viene voglia di replicare molto semplicemente facendo circolare le foto di Massimo Fini.

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